La forza del limite ossia La disabilità come mistero e rivelazione

di Alberto Fontana*
«Rileggendo gli scritti pontifici – scrive tra l’altro Alberto Fontana -, da “Gaudium et Spes” (1965) a “Fratelli Tutti” (2020), essi fanno emergere un volto di Chiesa in cammino, che mira a non considerare le persone con disabilità semplicemente come oggetto di cura, ma le riconosce come soggetti ecclesiali attivi, capaci di contribuire alla vita della comunità»

Persona con disabilità di spalle in una chiesaLa storia insegna che il tema della disabilità riflette le contraddizioni profonde dell’esistenza umana e delle società, di ieri come di oggi. È il punto di incontro tra tensione verso la perfezione e accettazione del limite, tra desiderio di forza e consapevolezza della fragilità, tra aspirazione all’autonomia e bisogno dell’altro, tra salute e malattia. Dicotomie che attraversano epoche, le cui risposte hanno costruito nel tempo i significati stessi dell’esperienza della disabilità.
In questo percorso di ricerca si inserisce la riflessione che la Chiesa compie sul tema della disabilità, come parte integrante della visione dell’uomo e della sua dignità. Un percorso che ha visto la disabilità passare da “ferita da sanare” a “croce da portare”, da “oggetto di assistenza” e “strumento di redenzione” ad esperienza di vita, nella quale si rivela, come in ogni uomo, l’immagine stessa del Dio fatto uomo. Ed è proprio questa immagine che apre a nuovi spazi di pensiero, suscita domande che richiedono condivisione e invita a costruire nuovi modelli di convivenza sociale.

Dopo che recentemente la Cattedra di Pietro è stata occupata da un Papa [Leone XIV] che porta nel nome l’eredità di una svolta decisiva nella storia della dottrina sociale della Chiesa – con la Rerum Novarum [Leone XIII, 1891, N.d.R.] – mi piace rileggere questo percorso con uno sguardo agli scritti pontifici, espressione di quel dialogo generativo tra la Parola di Dio, la visione antropologica cristiana e la lettura dei segni dei tempi.

I documenti del Magistero, da Gaudium et Spes (1965) a Fratelli Tutti (2020), fanno emergere un volto di Chiesa in cammino, che mira a non considerare le persone con disabilità semplicemente come oggetto di cura, ma le riconosce come soggetti ecclesiali attivi, capaci di contribuire alla vita della comunità. Parte viva di cui San Paolo scrive: «[…] Quelle parti del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie» (1 Corinzi 12,22). Questa verità interpella ancora oggi profondamente la Chiesa e il suo sguardo sulla persona con disabilità, perché significa riconoscere nella fragilità una presenza essenziale, capace di svelare il mistero dell’umano e di orientare la visione di una società più giusta da custodire.

Di fatto, nella citata Gaudium et Spes, il Concilio pone le basi per una nuova antropologia ecclesiale. Pur non citando esplicitamente il termine disabilità, il documento afferma infatti: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi […] sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (GS 1). È un primo invito ad una solidarietà universale con ogni condizione umana, a riconoscere in ciascuno la presenza di Dio e all’apertura di una pastorale capace di accogliere la persona con disabilità come parte integrante della vita della Chiesa.

Un passo decisivo in questo senso avviene con Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Christifideles Laici (1988), nella quale afferma: «Un’attenzione particolare meritano i laici che vivono in condizione di infermità o di disabilità… Devono sentirsi non solo oggetto dell’amore della Chiesa, ma soggetti attivi e responsabili della missione della Chiesa» (§53). Qui avviene la svolta del pensiero nel considerare la persona in condizioni di fragilità non solo destinataria di opere di carità, ma soggetto attivo e co-partecipe nella costruzione della comunità. Visione che viene ripresa e approfondita nell’enciclica Evangelium Vitae (1995), la quale denuncia ogni cultura dello scarto e proclama il valore incondizionato della vita, sempre.

Ma gli scritti pontifici rivelano anche il volto della tenerezza di una Chiesa che si fa madre. Con Deus Caritas Est (2005), Papa Benedetto XVI mette al centro l’amore come fondamento di ogni azione ecclesiale: «Vedere con il cuore: così vede Dio, e così deve vedere l’amore» (§31). Parole che evocano una visione profonda dell’uomo e della società, e che ci invitano a guardare l’altro con lo sguardo dell’anima, capace di abbracciare il suo mondo, in tutta la sua complessità e bellezza. Uno sguardo scevro da sovrastrutture, che ha il coraggio di non tirarsi indietro, anche quando la vita impone domande di cui ancora non si hanno risposte.

È quell’invito a farsi prossimo che nel Magistero di Papa Francesco si traduce in impegno sociale. Se nell’esortazione Evangelii Gaudium (2013) viene denunciata l’indifferenza verso i più deboli: «Ogni persona, anche se segnata da limiti gravi, è pienamente soggetto di dignità e di diritti» (§209), questa denuncia diventa promozione di un impegno pastorale in ambito familiare – «Ogni bambino che viene al mondo […] merita l’amore e l’accompagnamento della famiglia e della comunità ecclesiale» (Amoris Laetitia, 2016, §47-48) – e con uno sguardo sulla società tutta, affermando che «Le persone con disabilità hanno diritto di accedere all’educazione, al lavoro, alla cultura, allo sport, alla spiritualità… e devono essere pienamente parte della comunità» (Fratelli Tutti, 2020, §98).

L’idea di “essere parte” porta la riflessione oltre il concetto di inclusione sociale, superando la logica del “noi e loro” evocata da Justin Glyn (Justin Glyn S.J., «Noi», non «loro»: la disabilità nella Chiesa, in «La Civiltà Cattolica», n. 4069, 2020), per abbracciare la visione di interdipendenza, di appartenenza reciproca, dove ciascuno non solo trova il proprio posto, ma dà forma stessa alla vita della Chiesa e della società, perché «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Corinzi 12,26).

Riconoscere tra le pieghe dei documenti del Magistero una crescente responsabilità pastorale sul tema della disabilità è senza dubbio edificante. È segno di una Chiesa che si lascia interrogare, che si apre al mistero della fragilità umana e ne custodisce la dignità come fondamento della propria missione evangelizzatrice. Tuttavia, la sfida che oggi interpella la comunità cristiana è quella di trasformare questa consapevolezza in cultura condivisa. Un pensiero che da patrimonio teologico diventi stile di prossimità, linguaggio accessibile e gesto concreto nella quotidianità.
L’esperienza della fragilità, con le sue dicotomie, si rivela allora un autentico “luogo teologico” per comprendere il mistero dell’umano e, al tempo stesso, fonte da cui ha origine la dignità. E l’uomo, creato a immagine di Dio (Genesi 1, 26-27), ne custodisce tutta la sua bellezza, così come canta con stupore il Salmo 139: «Sei tu che hai creato le mie viscere […]. Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio».
Così l’immagine di Dio nell’uomo potrà davvero abitare la vita delle comunità, riconoscendosi in ogni persona nella sua irripetibile unicità.

*Curatore, insieme a Giovanni Merlo, del libro “A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità”, La Vita Felice, 2022 (se ne legga anche la nostra presentazione). Il presente contributo è già apparso nel blog A Sua Immagine? e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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