Sarebbe davvero innovativo se le parrocchie divenissero “chiese in uscita alla ricerca di persone con disabilità”!

di Salvatore Nocera
«Ho letto con grande interesse – scrive Salvatore Nocera – l’articolo di Alberto Fontana pubblicato da Superando, sulla piena presa di coscienza culturale, teologica e pastorale da parte della gerarchia ecclesiale, della visione nuova delle persone con disabilità, non più oggetto, ma soggetto attivo nella Chiesa Cattolica. Voglio dunque sperare che vi siano sempre più organismi ecclesiali e persone credenti che si convertano definitivamente a questa nuova cultura inclusiva»

Persona con disabilità in chiesaHo letto con grande interesse, da cattolico impegnato, l’articolo di Alberto Fontana pubblicato nei giorni scorsi da Superando, sulla piena presa di coscienza culturale, teologica e pastorale da parte della gerarchia ecclesiale, della visione nuova delle persone con disabilità, non più oggetto, ma soggetto attivo nella Chiesa Cattolica [“La forza del limite ossia La disabilità come mistero e rivelazione”, N.d.R.]. Fontana parte dal Concilio Ecumenico Vaticano II, attraversa gli innovativi interventi dei vari pontefici, per concludere con delle puntuali citazioni bibliche. Non sto a riassumere l’articolo per non far perdere ad esso l’afflato di vera innovazione culturale, invitando altresì invito alla sua lettura e rilettura, mentre manderò il testo anche a suor Veronica Donatello, responsabile della Pastorale sulla Disabilità della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), perché venga diffuso in tutti i nostri ambienti ecclesiali. Qui vorrei soffermarmi su due spunti offerti dall’articolo.

Verso la fine del testo si fa riferimento al libro “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching (“Noi”, non “loro”. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica), del gesuita australiano docente di Diritto Canonico Justin Glyn che, partendo dal versetto biblico «Dio ha creato l’uomo a Sua immagine», svolge la tesi teologica secondo la quale, Dio, perfettissimo, non ha creato uomini imperfetti come le persone con disabilità, poiché anch’esse sono appunto a “Sua immagine”, accomunate a Dio Cristo crocifisso salvatore del mondo. Alberto Fontana e Giovanni Merlo, con la Federazione lombarda LEDHA, hanno organizzato a suo tempo uno specifico convegno, su questo libro, tradotto in italiano e da essi curato con il titolo significativo A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità (La Vita Felice, 2022) dal quale è nato anche un blog.
Ebbene, la tesi teologica sviluppata da Glyn supera la precedente visione pastorale delle persone con disabilità come oggetto di compassione, perché sofferenti. Ora, infatti, non sono solo le sofferenze che le assimilano al figlio di Dio, ma sono a Sua immagine come redentore, tramite la crocifissione, e quindi come soggetti attivi.

In un mio precedente intervento su queste stesse pagine [“La Chiesa non si governa coi piedi, ma con la testa”, N.d.R.], mi ero permesso di aggiungere che la fede cristiana crede in Gesù morto e risorto e quindi , per una piena identificazione all’immagine di Dio, sarebbe opportuno citare pure il Vangelo di Matteo al capo 25 (versetti 31-47), brano in cui viene presentato Gesù che giudica nel giudizio universale e distingue i buoni dai cattivi in base a come avranno agito nei confronti delle persone bisognose di solidarietà, quali gli assetati, gli affamati, i bisognosi di tutto. Egli, crocifisso e risorto, dice «tutto quello che avrete fatto ai più piccoli di questi “miei fratelli” lo avrete fatto a me». Qui dunque è Cristo risorto che invita noi tutti a «far risorgere dalla morte morale» anche le persone con disabilità tramite la solidarietà “includente”.
Questa mi sembra un’immagine teologicamente più completa e che contemporaneamente invita le persone senza disabilità ad essere accoglienti verso quelle con disabilità e ad includerle in modo tale da essere e sentirsi veri soggetti tra soggetti. Purtroppo quel mio articolo era uscito appena dopo l’improvvisa scomparsa di Papa Francesco e allora la conclusione e il titolo dello stesso hanno in parte oscurato il contenuto primario del mio collegamento del tema di fondo dell’articolo alla citazione del Vangelo di Matteo, che comunque torno a sottoporre alla discussione critica degli esperti.

Ma il brano di Alberto Fontana che mi intriga moltissimo è questo, verso la fine del suo contributo: «Riconoscere tra le pieghe dei documenti del Magistero una crescente responsabilità pastorale sul tema della disabilità è senza dubbio edificante. È segno di una Chiesa che si lascia interrogare, che si apre al mistero della fragilità umana e ne custodisce la dignità come fondamento della propria missione evangelizzatrice. Tuttavia, la sfida che oggi interpella la comunità cristiana è quella di trasformare questa consapevolezza in cultura condivisa».
Questo passaggio dalla consapevolezza della gerarchia pontificia a «cultura condivisa da tutta la comunità ecclesiale», composta da sacerdoti, catechisti, operatori pastorali e da laici, educatori, docenti, assistenti all’inserimento lavorativo, imprenditori, amministratori nazionali e locali, sanitari, politici a tutti i livelli, è un compito difficilissimo, come evidenzia il passaggio di Fontana, ma è essenziale, perché è questa condivisione culturale che può fare “incarnare” in opere concrete quella nuova visione teologica.
Conosco Associazioni che si stanno adoperando in tal senso e penso alla Comunità Papa Giovanni XXIII, alla Comunità di Capodarco, fondata da don Franco Monterubbianesi, recentemente scomparso, alla Comunità di Sant’Egidio, all’Agesci, a Comunione e Liberazione, al MAC (Movimento Apostolico Ciechi), che addirittura ha istituito un premio per le parrocchie inclusive [Il “Premio Don Giovanni Brugnani – Parrocchie inclusive”, N.d.R.]”.Ce ne sono sicuramente altre e sarebbe interessante una ricognizione per individuarne il massimo numero possibile, affinché potessero operare insieme a quelle d’ispirazione laica per una sempre maggiore e migliore cultura inclusiva di soggetti attivi con disabilità anche nella società civile.
Quello che però ancora noto assai poco è la presenza nelle nostre parrocchie di persone con disabilità nelle attività liturgiche, di diaconia e di vita parrocchiale. Ad esempio, in alcune chiese talune persone cieche vengono invitate a leggere in Braille alcune letture della Messa, mentre alcune persone sorde segnanti vengono invitate a predicare tramite l’interprete gestuale; e ancora, alcune persone con disabilità intellettiva distribuiscono la comunione durante la messa o fanno parte dei complessini che suonano durante alcune messe; infine, alcune persone con disabilità fisiche collaborano per sbrigare al telefono pratiche di casi che si presentano alla Caritas.

Le scuole cattoliche si stanno sempre più aprendo all’inclusione scolastica anche di alunni «con bisogno di sostegni elevati o molto elevati»; lo si fa di meno presso il mondo imprenditoriale di ispirazione cristiana e ancor meno in quello delle strutture residenziali, che fanno fatica culturale e operativa ad accettare la nuova cultura delle piccole comunità di accoglienza, del co-housing e della vita indipendente, come vuole anche il recente Decreto Legislativo 62/24.
Sarebbe innovativo se, alla luce del magistero di Papa Francesco, anche le parrocchie divenissero “chiese in uscita alla ricerca di persone con disabilità”, per includerle e farle uscire dal loro troppo frequente isolamento. Sarebbe possibile alle associazioni e ai gruppi di volontariato organizzare la ricerca di tali persone, per offrire di accompagnarle a frequentare attività parrocchiali o per sbrigare qualche loro pratica o per recarsi a qualche loro visita medica?
E comunque nell’Anno Giubilare che vuole i credenti “pellegrini di speranza”, voglio sperare che vi siano sempre più organismi ecclesiali e persone credenti che si convertano definitivamente a questa nuova cultura inclusiva auspicata dall’articolo di Alberto Fontana, di cui mi auguro la massima diffusione possibile.

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