Perché è illegittima l’istituzionalizzazione delle persone con disabilità

di Simona Lancioni*
Dopo la replica di Giuseppe D’Angelo dell’UTIM (Unione per la Tutela delle Persone con Disabilità Intellettiva), a un suo precedente contributo (“Quali fondamenti giuridici avrebbe l’istituzionalizzazione?”), Simona Lancioni torna sull’argomento, ribadendo come «l’istituzionalizzazione – anche in assenza di episodi di abusi e violenze contro le persone con disabilità – sia una pratica discriminatoria e illegittima, perché in contrasto con le disposizioni della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità»

Ombre di una persona con disabilità e di una persona senza disabilitàGentilissimo Giuseppe D’Angelo, la ringrazio molto per il suo cortese riscontro (si veda: A proposito di vita indipendente e della necessità di sostegni del 26 giugno scorso), sebbene nello stesso non siano stati affrontati i nodi problematici che il mio precedente scritto intendeva fare emergere (si veda: Quali fondamenti giuridici avrebbe l’istituzionalizzazione? del 25 giugno 2025). Pertanto mi assumo la responsabilità di non essere stata sufficientemente chiara nell’esprimermi. Me ne scuso e provo a riformulare il mio pensiero a partire dalle sue risposte.

Il mio testo era volto a fare emergere come l’istituzionalizzazione – anche in assenza di episodi di abusi e violenze contro le persone con disabilità che si configurino come reati codificati – in realtà si connoti come una pratica discriminatoria e illegittima perché in contrasto con le disposizioni della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09).
La Convenzione ONU, essendo stata recepita dal nostro Stato, non si pone, né può essere considerata, al pari delle norme ordinarie, perché il nostro ordinamento giuridico colloca le norme convenzionali ai vertici della gerarchia delle fonti del diritto, allo stesso livello della Costituzione. Questo significa che tutte le leggi, i regolamenti, le disposizioni, le pratiche di grado inferiore in contrasto con la Convenzione vanno abolite o modificate affinché si allineino al dettato convenzionale.
Purtroppo il nostro Paese è largamente inadempiente su questo fronte, come ci ha opportunamente fatto notare il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità nelle sue Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia sull’applicazione della Convenzione (31 agosto 2016).
Dunque, quando lei afferma che «è indubbio che nell’ordinamento italiano la residenzialità sia prevista e normata», e cita le norme sui Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), le devo far notare che quelle disposizioni (intendo quelle inerenti al tema considerato), sebbene ancora in vigore, sono state definite illegittime dal Comitato ONU, perché lesive dei diritti umani delle persone con disabilità. Si verifica cioè una situazione in cui legalità e legittimità non coincidono più. La qual cosa, ne converrà, pone una serie di interrogativi etici e giuridici che però non traspaiono dalle sue considerazioni. Possono essere considerate legittime le pratiche che scaturiscono da norme dichiarate illegittime dal Comitato ONU? Pur non essendo una giurista, lo escludo. Chi non fosse d’accordo, può argomentare in contrario.

Lei afferma poi «che il testo della Convenzione appare orientato e pensato soprattutto per chi (e da chi) può esprimere una volontà, almeno in parte, autonoma (disabilità fisico-sensoriali o intellettive lievi). Quando però la capacità di agire (articolo 2 del Codice Civile) è compromessa in modo significativo, una lettura letterale del testo rischia di produrre l’effetto contrario: l’obbligatoria “libertà di scelta” diventa abbandono, se mancano sostegni qualificati». A mio parere questa affermazione contiene diverse fallacie argomentative che illustro di seguito.
La Convenzione ONU definisce il proprio scopo al primo comma dell’articolo 1 con questa dicitura: «Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità» (i grassetti sono miei in questa e nelle successive citazioni). Quindi, al comma successivo, chiarisce cosa si debba intendere con l’espressione “persone con disabilità”, e nel novero ricomprende «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali».
Come possiamo notare, non vi è distinzione tra le persone che possono «esprimere una volontà, almeno in parte, autonoma» e le altre, come lei asserisce; infatti, è generalmente condiviso che la Convenzione ONU si applichi a tutte le persone con disabilità senza nessun tipo di distinzione.

Successivamente lei cita la capacità di agire e il Codice Civile. In merito alla capacità di agire è bene rammentare che, con l’articolo 12 (Uguale riconoscimento dinanzi alla legge), la Convenzione ONU ha istituito la “capacità legale universale”, riconoscendo a tutte le persone con disabilità – e dunque anche a quelle con disabilità intellettive e psichiatriche – il diritto di godere della piena capacità giuridica e d’agire. Si tratta di una tema ampiamente approfondito dal Comitato ONU nel Commento generale n. 1 del 2014.
È importante precisare che tale interpretazione è pacificamente assunta anche dalla letteratura giuridica. Il fatto che nel nostro ordinamento persistano istituti di tutela giuridica che ancora permettono di comprimere o negare la capacità di agire delle persone sulla base della disabilità confligge con la Convenzione ONU. Infatti il Comitato ONU, nelle già menzionate Osservazioni Conclusive, ci ha chiesto di abrogare detti istituti, e di disporre misure per supportare il processo decisionale delle persone con disabilità che hanno questo tipo di esigenza (si vedano i punti 27 e 28).
Nella sostanza si tratta di abolire i regimi decisionali sostitutivi e di realizzare regimi decisionali supportati. Dunque, quando lei parla di «capacità di agire compromessa in modo significativo», sta eludendo il paradigma della Convenzione ONU, e quando cita alcune disposizioni del Codice Civile, sta omettendo di dire che si tratta di disposizioni di una normativa ordinaria che, come già esplicitato, in merito al tema in questione, contravvengono al dettato della stessa Convenzione ONU. Ne consegue che quando, nel mio precedente testo, ho chiesto quali sarebbero i fondamenti etici e giuridici che inducono l’UTIM (Unione per la Tutela delle Persone con Disabilità Intellettiva) e l’ANGSA Nazionale (Associazione Nazionale Genitori di perSone con Autismo) a ritenere che l’istituzionalizzazione sia una pratica da mantenere in vita, non intendevo affatto essere provocatoria, ma intendevo invece affermare – e intendo ribadire – che non mi risulta che l’istituzionalizzazione abbia una base giuridica che la legittimi, perché le norme che la legittimerebbero (tra cui quelle che lei ha citato), sebbene ancora in vigore, sono state dichiarate illegittime dal Comitato ONU.
Deve essere inequivocabilmente chiaro che non vi è alcun dubbio sul fatto che l’istituzionalizzazione sia incompatibile con la Convenzione ONU, e che quest’ultima si applichi a tutte le persone con disabilità, a prescindere dal tipo e dalla severità della disabilità stessa.

Lei ha scritto anche: «L’obbligatoria “libertà di scelta” diventa abbandono, se mancano sostegni qualificati». Questo è un passaggio importantissimo perché lascia intendere che l’unica risposta possibile per le persone con necessità di sostegno elevato, molto elevato e intensivo (espressioni utilizzate per rinominare la condizione di gravità all’articolo 4 del Decreto Legislativo 62/24) siano gli istituti, e fuori da questi ci sarebbe l’«abbandono» e la mancanza di sostegni qualificati.
Ecco, il Comitato ONU, nelle Linee guida sulla deistituzionalizzazione, anche in caso di emergenza, pubblicate nel settembre del 2022, ci dice che non solo quella non è l’unica risposta possibile, ma anche che essa è una risposta discriminatoria e violenta: «L’istituzionalizzazione è una pratica discriminatoria nei confronti delle persone con disabilità, contraria all’articolo 5 della Convenzione», è scritto al punto 6 delle Linee guida.
Questo è invece un altro passaggio del medesimo punto: «Gli Stati parti devono riconoscere l’istituzionalizzazione come una forma di violenza contro le persone con disabilità». Le Linee guida non stanno affatto invitando gli Stati Parti ad abbandonare a se stesse le persone con disabilità – ci mancherebbe! –, stanno invece dicendo che i sostegni (anche quelli elevati, molto elevati e intensivi) vanno forniti senza comprimere il diritto delle persone con disabilità «di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione», diritto riconosciuto dall’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società) della Convenzione ONU.
Chi legittima l’istituzionalizzazione fa proprio questo: comprime o nega il diritto delle persone con disabilità di scegliere di vivere dove vogliono, e le obbliga a convivere insieme ad altre persone con disabilità (in genere senza preoccuparsi se questa scelta è gradita o meno), con regole, tempi e attività scelti da altre persone. È come se dicesse alla persona con disabilità: «Io ti aiuto, ma tu devi rinunciare al diritto umano di scegliere dove, come e con chi vivere». A me sembra una modalità ricattatoria perché non è vero che non esistono alternative all’istituto, è vero invece che – un po’ per inerzia, un po’ per non conoscenza, spessissimo per conflitti di interesse – le alternative non vengono cercate.
I progetti di vita individuali, personalizzati e partecipati disciplinati dal Decreto Legislativo 62/2024, ad esempio, sono strumenti particolarmente adatti per uscire dalle logiche del servizio standardizzato proprie dell’istituzionalizzazione, e per promuovere servizi alternativi nei luoghi dove la persona con disabilità preferisce stare e con le modalità a lei più congeniali. Dunque, sia chiaro: nessuno vuole abbandonare nessuno. E sarebbe anche ora di smettere di dire che le persone con disabilità sceglierebbero di vivere negli istituti – non l’ha detto lei in specifico, ma è un’argomentazione ricorrente tra chi legittima l’istituzionalizzazione –, perché francamente proprio non si capisce come si possa parlare di scelta quando non vengono fornite alternative.
Il punto 8 delle Linee guida è molto chiaro anche su questa questione, lo riporto per intero perché si tratta di un passaggio che andrebbe conosciuto, letto, riletto, ben meditato e imparato a memoria come una poesia natalizia: «Gli Stati parti dovrebbero abolire tutte le forme di istituzionalizzazione, porre fine ai nuovi collocamenti in istituti e astenersi dall’investire in istituti. L’istituzionalizzazione non deve mai essere considerata una forma di protezione delle persone con disabilità o una “scelta”. L’esercizio dei diritti previsti dall’articolo 19 della Convenzione non può essere sospeso in situazioni di emergenza, comprese le emergenze sanitarie».

C’è poi un altro aspetto importante che è bene mettere a fuoco. Sia nel primo testo dell’UTIM (si veda: Quegli episodi di violenza sono il risultato di un sistema che necessita di un intervento urgente e radicale del 24 giugno), sia nella sua replica al mio scritto, è espresso il concetto che solo le «strutture residenziali di grandi dimensioni» sarebbero segreganti. In specifico, nella Sua replica è scritto: «La nostra “battaglia” mira dunque innanzitutto a superare i modelli segreganti che ledono la dignità della persona, inibiscono le normali relazioni e favoriscono abusi, chiedendo principalmente il superamento definitivo delle strutture istituzionalizzanti, promuovendo solo piccole comunità a carattere familiare (massimo 8 posti letto, più 1 o 2 di pronta accoglienza o tregua), integrate nel tessuto sociale e soprattutto non accorpate fra loro». Tuttavia anche questa idea confligge con le indicazioni espresse dal Comitato ONU nelle menzionate Linee guida. Infatti, in esse, al punto 17, è scritto: «Indipendentemente dalle dimensioni, dallo scopo o dalle caratteristiche, o dalla durata di qualsiasi collocazione o detenzione, un istituto non può mai essere considerato conforme alla Convenzione». E poco più avanti, al punto 20, si legge: «I processi devono evitare pratiche che violano l’articolo 19 della Convenzione, tra cui la ristrutturazione degli ambienti, l’aggiunta di altri posti letto, la sostituzione di grandi istituzioni con altre più piccole, la ridenominazione delle istituzioni o l’applicazione di standard come il “principio della minima restrizione” nella legislazione sulla salute mentale».
Mi pare pertanto che anche l’idea che solo le strutture di grandi dimensioni siano segreganti sia stata sconfessata dal Comitato ONU, ossia il soggetto indipendente a cui è affidato, tra gli altri compiti, anche quello di dare indicazioni su come interpretare e applicare la Convenzione ONU.

Si potrebbero fare ulteriori considerazioni, ma quelle esposte mi sembrano le più rilevanti, e non voglio essere troppo lunga. Concludo con una richiesta: posto che l’Italia ha ratificato la Convenzione ONU, che l’istituzionalizzazione è incompatibile con la stessa, e che il Comitato ONU chiede a tutti gli Stati Parti di prevenire l’istituzionalizzazione e promuovere la deistituzionalizzazione – richiesta a cui come Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli aderiamo senza riserve –, l’UTIM e l’ANGSA Nazionale sono disponibili a sposare questa rivendicazione? Ne sarei davvero felice.

*Responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa). L’autrice dichiara di non avere alcun conflitto di interessi, neanche indiretto, riguardo al tema dell’istituzionalizzazione.

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