Ma la scuola italiana sa essere realmente inclusiva?

di Primarosa Bosio, Lisetta Silini e Salvatore Nocera
«Ma la scuola italiana sa realmente essere inclusiva?», si chiedono Primarosa Bosio, Lisetta Silini e Salvatore Nocera, prendendo spunto dal titolo di un paragrafo (“Scuola che sa essere inclusiva”) della nuova bozza di proposta delle “Indicazioni Nazionali per il curricolo – Scuola dell’infanzia e Scuole del Primo ciclo di istruzione” della quale propongono un’analisi critica. «Abbiamo assodato che “deve esserlo”, sappiamo che “può esserlo”, purché si garantiscano le condizioni che le norme prevedono da decenni»

Bimbe con disabilità a scuolaL’11 giugno scorso è stata pubblicata nel sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito una nuova bozza della proposta di Indicazioni Nazionali per il curricolo – Scuola dell’infanzia e Scuole del Primo ciclo di istruzione del ministro Valditara; considerando questo testo come pressoché definitivo, ci vogliamo occupare, per consuetudine professionale e di vita e per passione verso la causa dell’inclusione, del paragrafo riguardante la Scuola che sa essere inclusiva, ultima parte delle Premesse culturali (pagine 10-11).

Confronti
Data la presenza di due diverse bozze e le critiche, anche feroci, che avevano accompagnato la prima versione dell’11 marzo, procediamo ad un breve confronto tra i due testi, quello dell’11 marzo e quello attuale dell’11 giugno.
Notiamo che, mentre nella presentazione sul sito del Ministero si afferma che «il nuovo testo è meno “tecnico”, più breve», il paragrafo Scuola che sa essere inclusiva è invece più lungo: 791 parole contro le 674 della versione precedente. Non giudichiamo di certo la validità di un testo dalla sua lunghezza (vedi confronto successivo con le Indicazioni del 2012, ben più brevi), ci interessa di più capire cosa mancava nella versione precedente: ad una prima superficiale lettura, si nota l’inserimento di una parte, sostanziosa, che riguarda gli alunni stranieri, con indicazioni precise e puntuali sulle strategie organizzative a cui fare ricorso per un intervento efficace.
Risulta meno presente, invece, il riferimento alle “culture latenti” dell’organizzazione, argomento interessante e condivisibile, anche se non nuovo, ma eccessivamente virato nella prima versione sull’aspetto architettonico e di design.
I Bisogni Educativi Speciali si allargano agli alunni adottati, mentre continuano ad essere quasi inesistenti, come vedremo meglio più avanti, gli alunni con disabilità.
Un accenno al lessico: niente più citazioni di Comenio (rischioso: non è possibile oggi «insegnare tutto a tutti completamente», i «tutti» di Comenio erano i maschi normodotati europei del suo periodo storico, il Seicento, mentre le nostre scuole vedono presenze ben più variegate, allora escluse), sono spariti gli sguardi sorridenti e l’affabilità dei modi, e anche i colpi d’ala; non possiamo che esserne lieti, come salutiamo con soddisfazione l’assunzione, auspichiamo definitiva ed esclusiva, della locuzione «persona (studenti) con disabilità» raccomandata dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.

Il confronto con le precedenti Indicazioni del 2012 è d’obbligo: rimane molto marcata, in quest’ultima bozza, la differenza sia nel lessico che nella sostanza. Da una parte un testo asciutto (223 parole), professionale e chiaro, con puntuali riferimenti normativi a cui l’azione degli insegnanti si deve conformare: il processo, basato sui diritti, è già in atto, si tratta di consolidarlo con tutte le strategie opportune. Tutte le differenze trovano accoglienza e garanzia, ma «particolare cura è riservata agli allievi con disabilità…». Dall’altra una trattazione più discorsiva, anche se di molto migliorata rispetto alla prima versione, un lessico in generale opportunamente tecnico con qualche caduta retorica (…personalizzazione come postulato squisitamente pedagogico…), frasi lunghe, sintatticamente complesse; nella sostanza, riferimenti superflui alle glorie nazionali, l’attenzione centrata sui bisogni educativi speciali e l’indicazione di strategie, condivisibili ma non esaustive, la quasi totale (e inquietante) “trasparenza” degli alunni con disabilità.
In ambedue i documenti ministeriali l’inclusione viene inserita al termine della trattazione delle premesse, al penultimo punto nel testo del 2012, all’ultimo in quello del 2025, come se la questione fosse da trattare dopo avere delineato gli orizzonti generali, come una risposta ad esigenze particolari e specifiche. Noi crediamo invece che sarebbe più produttivo metterla al primo posto, prendendo finalmente atto della composizione attuale delle classi nella nostra scuola: sta progressivamente scomparendo dall’orizzonte l’alunno “normale”, che per altro non è mai esistito se non nelle classificazioni pseudoscientifiche, per lasciare il posto ad una pluralità di presenze faticosa ma nello stesso tempo ricca di potenzialità. La risposta non può essere l’esplosione di certificazioni, come sta avvenendo da qualche anno, e l’allargamento della platea dei “bisogni educativi speciali” con relative risposte parcellizzate e in definitiva ghettizzanti.
Nella direzione del riconoscimento delle pluralità ci pare vada il titolo del paragrafo nel testo del 2012, Una scuola di tutti e di ciascuno che pone al centro gli alunni e i diritti, mentre il titolo Scuola che sa essere inclusiva (2025) sembra delineare un’istituzione competente che sa rispondere alle diverse esigenze. Questa certezza, serenamente apodittica, stimola riflessioni e solleva alcuni punti interrogativi.

L’inclusione, questa sconosciuta
Il primo dubbio riguarda il concetto stesso di inclusione: come in tutti i testi normativi precedenti, se ne dà per scontata un’accezione condivisa e mai esplicitata, che lascia quindi campo alle interpretazioni più varie su cui si è esercitata la riflessione professionale, senza giungere per ora ad un significato comune. Noi crediamo che le radici della questione vadano cercate nella nostra Costituzione: incredibilmente, date le condizioni della scuola di allora, i padri e le madri costituenti hanno saputo darsi e darci un orizzonte di senso rivolto al futuro, spianando la strada al percorso normativo, culturale, professionale durato anni e ancora in corso. Il famoso e più volte citato, a volte anche a sproposito, articolo 3, pone le premesse generali: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
L’articolo 34 sgombra poi il campo da ogni dubbio: «La scuola è aperta a tutti». Si delinea quindi una scuola della Repubblica che rimuove gli ostacoli e favorisce il pieno sviluppo della persona umana per tutti, quindi inclusiva! («Per inclusione scolastica intendiamo un processo volto a rimuovere gli ostacoli alla partecipazione e all’apprendimento che possono derivare dalla diversità umana in relazione a differenze di genere, di provenienza geografica, di appartenenza sociale, di condizione personale»: T.Booth, M. Ainscow, Index per l’inclusione, 2000). Ma proprio tutti tutti?
La domanda è rimbalzata lungo i decenni fino a produrre, anche grazie alle battaglie di un vasto schieramento di forze sociali e professionali, una normativa all’avanguardia, non del tutto applicata, e per ora la risposta è affermativa: sì, proprio tutti tutti, anzi tutti e tutte (diciamo ora) coloro che sono in età scolare e calcano il suolo del nostro amato Paese.
Il testo delle recenti Indicazioni, a pagina 10, pare essere d’accordo: vengono citate con orgoglio la Legge 517/77 e «gli indirizzi normativi illuminati», ma nel prosieguo del testo gli alunni con disabilità sono, come detto in precedenza, quasi inesistenti. Vengono citati tre volte: all’inizio, con riferimento (dovuto) al loro inserimento nella scuola comune negli Anni Settanta; al terzo capoverso, con una formulazione strana, che pare definire la partecipazione degli alunni con disabilità come un privilegio rispetto agli altri alunni: «L’idea di inclusione scolastica si basa, infatti, sul riconoscimento della rilevanza della piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti, non solo delle persone con disabilità». Infine là dove si parla delle tecnologie assistive «basate sull’IA [intelligenza artificiale, N.d.R.], che permettono agli studenti con disabilità o con DSA [disturbi specifici di apprendimento, N.d.R.] di meglio partecipare alle attività educative e didattiche, garantendo pari opportunità di apprendimento» (quel «garantendo» ci pare in verità un po’ forte…).
Ampio spazio viene invece dedicato agli altri Bisogni Educativi Speciali: alunni con DSA, alunni con svantaggio socioculturale o disturbi piscologici non riconducibili a disabilità certificata, alunni adottati o «provenienti da contesti migratori», aspetto quasi completamente assente dalla precedente versione. Per questi ultimi sono indicate ragioni storiche e culturali, misure sistemiche e prassi specifiche, fino a citare l’assegnazione di un maggior numero di docenti. Per gli alunni con disabilità, invece, non vi è alcun accenno alle numerose inadempienze che ostacolano il processo inclusivo, in primis la mancata attuazione di quasi tutti gli articoli del Decreto Legislativo 66/17 che riguardano: la formazione e la definizione del profilo professionale degli assistenti per l’autonomia e la comunicazione, atteso da quasi dieci anni; il miglioramento quantitativo e qualitativo della specializzazione “polivalente” dei docenti di sostegno; la formulazione degli indicatori per effettuare una valutazione realistica della  qualità inclusiva realizzata nelle singole classi e nelle singole scuole; l’attivazione dei nuovi modelli di PEI (Piani Educativi Individualizzati) su piattaforma; la continuità didattica dei docenti di ruolo e la stabilizzazione dei supplenti; l’istruzione domiciliare e il delicatissimo momento del passaggio dalla scuola al lavoro.
Nonostante sia nota a tutti l’importanza delle questioni in sospeso e la gravità dei problemi determinati dall’inerzia legislativa del Ministero, problemi denunciati anche dalle Associazioni, e specie dalla FISH (già Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, oggi Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie), l’Osservatorio Nazionale sull’Inclusione Scolastica negli ultimi due anni è stato convocato un paio di volte per motivi certo urgenti, ma assolutamente ininfluenti rispetto a quanto sopra esposto.
Chiunque si occupi dell’inclusione scolastica conosce le numerose e gravi problematiche che rendono oggi difficoltosa, faticosa, a volte dolorosa l’esperienza degli alunni e alunne con disabilità nella scuola; certo non ovunque, certo esistono, noi crediamo, numerose realtà in cui le norme vengono applicate con cura, accompagnate da scelte pedagogiche e didattiche congruenti. Ma non ovunque in tutto il Paese, non ovunque in tutti gli ordini di scuola. Per altro, mancando indicatori e ricerche serie sulla questione, non possiamo neanche sapere con certezza cosa stia accadendo, a meno che non vogliamo considerare come attendibili le autoanalisi delle scuole con le procedure INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione), da cui si può evincere come tutto funzioni benissimo. Forse un accenno al PEI, alla corresponsabilità educativa di tutti i docenti della classe, al ventaglio delle strategie didattiche inclusive avrebbe perlomeno acceso l’attenzione sulla questione.

Le traiettorie del lavoro teorico-pratico
Ci si obietterà che le Indicazioni non sono il luogo adatto alla trattazione di problemi strutturali (allora perché dilungarsi sulle strategie anche organizzative per gli alunni stranieri…) e che in definitiva dei suggerimenti vengono dati, anzi si indicano delle traiettorie: la personalizzazione, l’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’OMS) per descrivere le capacità della persona e gli ostacoli che incontra nell’apprendimento, l’UDL (Universal Deasign for Learning) per progettare ambienti inclusivi, le tecnologie didattiche che dovrebbero permettere di adattare alle caratteristiche di ogni alunno i materiali e le esperienze di apprendimento. Ma ci permettiamo alcune osservazioni.
La personalizzazione, “morattianamente” intesa come possibilità di perseguire per ogni alunno anche obiettivi diversi rispetto a quelli comuni normativamente previsti, potrebbe in verità essere la strategia corretta, visto che il PEI, il Piano Educativo Individualizzato che accompagna ogni alunno con disabilità certificata lungo tutto il suo percorso scolastico, è l’unico strumento, per ora, che permette di piegare la normatività del programma alle caratteristiche del singolo alunno. Per tutti gli alunni che hanno Bisogni Educativi Speciali, anche per DSA certificati, la normativa prevede un PDP (Piano Didattico Personalizzato), che dovrebbe a nostro sommesso parere chiamarsi Piano Didattico Individualizzato, dato che traccia percorsi diversi per raggiungere obiettivi comuni e obbligatori, pur se minimi (come il PEI è in realtà un PEP, Piano Educativo Personalizzato). Di questo strumento stranamente non vi è traccia nel testo ministeriale, né tantomeno del PEI, preziosa possibilità per gli alunni con disabilità di seguire il percorso scolastico con i compagni di classe; si propone invece una visione, a nostro parere riduttiva, della personalizzazione come «accompagnamento intenzionale dell’allievo a riconoscer-si capace, al di là delle difficoltà, di sviluppare i suoi talenti». Questo «riconoscer-si capaci al di là delle difficoltà» richiama alla mente la definizione di “diversamente abile”, in voga qualche anno fa e cara al politicamente corretto ma, come diceva Andrea Canevaro, «attribuire una diversa abilità a tutti potrebbe sembrare una presa in giro. Esistono disabilità nelle quali la sofferenza di non scoprire la propria abilità è forte. È una sofferenza che non può essere annullata per decreto».
La diversa abilità non è un talento compensatorio della persona con disabilità, ma caso mai una sfida culturale che compete al contesto, come luogo che può e deve permettere lo sviluppo e l’utilizzo di differenti abilità a tutti. Il testo ministeriale, nelle Premesse culturali (in Scuola e nuovo umanesimo, pagina 7), definisce tale contesto come «capacitante, ossia un ambiente educativo che riconosce le sue possibilità [dell’alunno], ne sostiene l’autonomia e ne stimola lo sviluppo. Anche in situazioni di fragilità o svantaggio, un tale ambiente può attivare dinamiche di autorealizzazione impreviste, facendo del talento non un privilegio di pochi, ma una possibilità trasformativa per ciascuno». In molte situazioni, però, l’affermazione può apparire più una dichiarazione di fede che una prospettiva educativa concreta.
L’utilizzo dell’ICF, inoltre, sta incontrando non pochi ostacoli, sia per la stesura del profilo di funzionamento da parte della classe medica, sia per la progettazione educativa e didattica da parte della scuola, là dove non si tratta solo di individuare barriere e facilitatori nella persona con disabilità e negli ambienti fisici, ma anche di rimettere in discussione la gestione delle dinamiche di classe, modalità di insegnamento consolidate e pluridecennali, processi profondi che davvero potrebbero cambiare la scuola e per i quali sarebbe necessaria una robusta operazione di formazione in servizio per i docenti.
Lo stesso vale per l’UDL (Universal Design for Learning): sappiamo cosa significa davvero per un/una docente medio/a italiano/a con una classe media di 20/25 alunni, sicuramente “complessa e plurale”, progettare l’insegnamento fornendo agli alunni e alunne «molteplici forme di coinvolgimento, di rappresentazione, di espressione» (sono i tre princìpi fondamentali sostenuti dalla ricerca neuroscientifica, contenuti nelle Linee Guida sulla Progettazione Universale dell’Apprendimento-PUA, traduzione italiana dell’UDL, revisione 2018)?
Sostenere adeguatamente queste ipotesi di intervento richiederebbe uno sforzo titanico, anche economico; non ci pare vi sia consapevolezza di ciò, o perlomeno non se ne vede traccia, nel testo ministeriale, anzi rimangono drammaticamente presenti e irrisolte le problematiche sopra segnalate.
Per quanto riguarda le “tecnologie didattiche”, per altro già utilizzate da decenni per rendere accessibili gli apprendimenti là dove sono presenti varie difficoltà, salutiamo con favore l’ingresso nella scuola dell’intelligenza artificiale, purché la si utilizzi con consapevolezza dei limiti insiti nello strumento e non si ripongano in esso aspettative miracolistiche.

Ci pare risulti evidente, in queste “traiettorie”, l’applicazione alla generalità degli alunni con BES di concetti, strategie, strumenti quali l’ICF, l’UDL, le tecnologie facilitanti che sono frutto della ricerca e del dibattito relativo all’inclusione delle persone con disabilità, in continuità con il processo virtuoso iniziato con il loro ingresso nella scuola di tutti a partire dagli Anni Settanta, ciò che ha letteralmente terremotato un sistema scolastico statico e ripetitivo, dando impulso all’osservazione e alla ricerca in campo pedagogico, didattico, organizzativo, neuroscientifico, con evidenti e riconosciuti vantaggi per tutti.
Ci preme in ultima istanza segnalare la totale assenza in queste “traiettorie” del ruolo fondamentale giocato dai compagni e dalle compagne di classe. Infatti, uno degli elementi che rendono la scuola un ambiente educativo ricco di opportunità è l’apprendimento in un contesto sociale e socializzato: la battaglia degli Anni Settanta del Novecento per sostenere la presenza degli alunni con disabilità nelle scuole comuni era prima di tutto un’esigenza di condivisione, di partecipazione, in una parola di “esistenza” di questi alunni e alunne, che venivano tenuti “nascosti” nelle famiglie e in istituzioni segreganti. Molte ricerche ne hanno dimostrato i miglioramenti significativi non solo nella relazione e nell’autonomia, ma anche negli apprendimenti, altrettante ricerche hanno esplorato i vantaggi che derivano agli altri alunni dal condividere gli anni di scuola con diversità e differenze anche marcate e non sempre facili da gestire.

Ma proprio tutti tutti?
Certo, gli alunni con gravi disabilità pongono alla scuola domande profonde e pregnanti, a cui a volte si risponde con la delega all’insegnante di sostegno e all’assistente, con la permanenza per tutto l’orario scolastico in spazi separati, in sostanza con la negazione non solo dell’inclusione, ma anche dell’integrazione o del semplice inserimento.
Noi crediamo, e la legge in questo ci conforta, che il diritto all’apprendimento in un contesto sociale e socializzato valga senza eccezioni: a scuola si va tutte e tutti per imparare insieme. Per gli alunni con gravi disabilità occorre metterci qualcosa in più, ovvero attivare sinergicamente, creativamente, le migliori condizioni culturali, procedurali, didattiche, organizzative, nella ricerca della possibilità di promuovere un apprendimento, cioè un cambiamento positivo, nella qualità di vita di quell’alunno, anche quando tale cambiamento sembra piccolo o difficile da intravvedere.
Fra le condizioni necessarie, come si accennava, c’è la classe, da coinvolgere nella conoscenza, nell’osservazione, nella ricerca, nelle pratiche di mutuo apprendimento. Una classe che coevolve, che interagisce misurandosi con la difficoltà, ha un’opportunità unica e preziosa di esplorare nuovi saperi in campo scientifico, relazionale, civico, di imparare ad imparare, rielaborando il proprio apprendimento per significarlo ad un altro in difficoltà. In sostanza, una scuola che si preoccupa e si occupa dell’apprendimento degli alunni con gravi disabilità è una scuola migliore per tutti.
Non è una sfida semplice, non è saggio nascondere o sottovalutare le difficoltà, però è possibile affrontarla, forse anche vincerla e, assunto non secondario, è giusto farlo, non per generosità, ma per garantire diritti.

Un ultimo accenno a chi dovrebbe presidiare questi processi, e ogni giorno lo fa: analogamente ad una visione “singolare” dell’alunno, il testo ministeriale ignora, almeno in questo paragrafo, la collegialità che caratterizza ormai da decenni la scuola italiana, con tutti i vantaggi e le fatiche relative. È una dimensione essenziale, che permette alla scuola di essere inclusiva non solo per gli alunni, ma anche per i docenti. Non è una dimensione facile da agire, anche perché contrasta con una visione dell’insegnante come “professionista solitario” ancora fortemente presente, specialmente nelle scuole secondarie di secondo grado e che ci pare venga rinforzata da questo testo (si veda il riferimento al magister, ovviamente non alla magistra, nonostante lò’assoluta prevalenza nella scuola di personale femminile).

In conclusione: la scuola italiana sa essere inclusiva? Abbiamo assodato che deve esserlo, sappiamo, per conoscenza ed esperienza diretta, che può esserlo, purché si garantiscano le condizioni che le norme prevedono da decenni e si valorizzi e si diffonda la cultura pedagogica e didattica accumulata a livello professionale nelle migliori esperienze.
Di questo abbiamo bisogno: di un rinnovato impegno da parte di tutti e tutte coloro che se ne occupano a tutti i livelli, nella singola scuola, nelle associazioni, negli uffici regionali e ministeriali, negli enti locali, nella sanità, nella società infine. Di certo non ci serve perdere tempo ed energie a dibattere sull’opportunità o meno di percorsi separati, questione ormai superata da lustri. Abbiamo bisogno di ipotesi di futuro realistiche e adeguatamente sostenute.

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