«Possiamo e dobbiamo promuovere un cambiamento profondo del nostro modello di welfare – scrive Giovanni Merlo – facendo sì che le risorse, economiche e non solo, di cui disponiamo siano effettivamente messe al servizio del riconoscimento dei diritti di tutte, ma proprio tutte, le persone con disabilità. E dobbiamo progettare servizi nuovi, completamente diversi da quelli attuali, servizi basati sulla comunità, che offrano sostegni alle persone perché possano provare, fino in fondo, a realizzare se stesse»
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti: facciamo evidentemente ancora fatica. Sono passati tanti anni dall’affermazione di questo principio, sancito all’articolo uno della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948), ma, ancora, siamo in fondo convinti che il valore e la dignità di una persona sia legata al possesso di alcune abilità.
Sin dal 2006 la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità stabilisce come necessario riconoscere «il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone». Ebbene, non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo con quell’aggettivo (tutte) che continua a mettere in discussione le nostre certezze e le nostre convinzioni profonde, quando si parla di disabilità. Quando infatti si prova ad affrontare la radicalità di questa affermazione, c’è sempre chi afferma che si tratta certo di belle parole, ma che non possono valere proprio per tutti: certamente non per chi (utente, ospite, figlio o figlia, fratello o sorella) è “veramente grave” e di conseguenza non può scegliere e non può sapere quello che è il suo bene.
Il principio di gravità sembra dunque motivare l’eccezione e giustificare la riduzione della libertà dell’altra persona.
Rinunciare all’espressione “grave” in favore di quella che indica la «necessità di sostegno intensivo» (come previsto dall’articolo 4 del Decreto Legislativo 62/24) non è quindi un omaggio al linguaggio politicamente corretto, ma una necessità, per cercare di cambiare il punto di vista, almeno degli addetti ai lavori.
Non bisogna certo sminuire le difficoltà che le compromissioni e le menomazioni comportano nella vita delle persone, anche e soprattutto nell’esercizio della propria libertà. Ma in barba ai nostri pregiudizi, ogni uomo continua a nascere libero. È compito della società, cioè di ognuno di noi, fare in modo che ogni persona riceva i sostegni necessari per poter vivere nella società stessa, potendo scegliere, come gli altri, che vita vivere.
Nessuno può e deve essere inchiodato nella sua diagnosi. La compromissione, in nessun caso, deve predeterminare il percorso di vita di una persona. Ogni volta che questo accade (e accade di frequente), dovremmo trovare la forza di scandalizzarci e di dire con chiarezza che stiamo calpestando i diritti fondamentali di quella persona, a partire dal rispetto e riconoscimento della sua dignità.
Le questioni sono complesse e la strada è ancora lunga: per percorrerla abbiamo, evidentemente, ancora bisogno di parlarne e di confrontarci in modo sincero e rispettoso. Dedicare risorse e competenze alla redazione del Progetto di Vita della persona con disabilità non è tempo perso e non si tratta certo di risorse sottratte alle prestazioni in suo favore. Al contrario, si tratta di dedicare le nostre migliori energie per fare finalmente spazio alla persona con disabilità e assicurarci che i sostegni in suo favore servano per permetterle di vivere la vita “a modo suo”, cioè secondo ciò che per lei è importante. Vale per tutti: ancora di più per le persone con compromissioni di carattere intellettivo e relazionale. In questi casi non possiamo rinunciare ma, al contrario dobbiamo moltiplicare gli sforzi e investire tutte le risorse disponibili.
In questo momento storico, in cui anche la normativa italiana sta facendo proprio l’approccio alla disabilità basato sui diritti umani, dobbiamo farci coraggio e chiedere a noi stessi una maggiore radicalità. Non possiamo più difendere l’indifendibile, cioè un sistema di servizi basati sulla separazione, sulla protezione che dà valore alle sole prestazioni socio-sanitarie.
Non possiamo più tollerare che si preveda che alcune persone passino la vita solo ad essere assistite e curate.
Non possiamo più accettare che si possa pensare e dire che alcune persone siano “incapaci” perché sappiamo che tutti, con il giusto sostegno, possono esprimere le loro potenzialità.
Possiamo e dobbiamo promuovere un cambiamento profondo del nostro modello di welfare. Possiamo e dobbiamo fare in modo che le risorse, economiche e non solo, di cui disponiamo siano effettivamente messe al servizio del riconoscimento dei diritti di tutte le persone con disabilità.
Possiamo e dobbiamo progettare servizi nuovi, completamente diversi da quelli attuali: servizi basati sulla comunità che offrano sostegni alle persone perché possano provare, fino in fondo, a realizzare se stesse.
*Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).
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