Riflessioni di un insegnante addolorato dalla progressiva mortificazione e mercificazione della scuola

di Giovanni Maffullo*
«Parto dal recente fatto di cronaca dello studente che si è rifiutato di sostenere l’orale alla maturità – scrive tra l’altro l’insegnante specializzato Giovanni Maffullo – per metterlo in contrapposizione con quanto succede nelle nostre scuole e come si tenda a compensare malamente la necessità della responsabilità soggettiva, da parte degli adulti, di offrire modelli di presa di distanza dalla deriva in essere strisciante e dilagante»

Disegno in bianco e nero di insegnante alla lavagna di spalleChiedo a Lettori e Lettrici di avere pazienza nel leggere questo mio lungo contributo, ma non potrò fare a meno di dilungarmi e cercare di mettere insieme talune esperienze. Partirò da un recente fatto di cronaca che ha avuto una ribalta sui vari organi d’informazione e lo metterò in contrapposizione con quanto succede nelle nostre scuole e come si tenda a compensare malamente la necessità della responsabilità soggettiva, da parte degli adulti, di offrire modelli – facendo una scelta coraggiosa – di presa di distanza dalla deriva in essere strisciante e dilagante.

Gianmaria Favaretto è lo studente del Liceo Fermi di Padova che il 27 giugno scorso si è rifiutato di sostenere l’orale dell’esame di maturità ed è stato promosso. I crediti e i voti ottenuti con gli scritti gli hanno permesso di conquistare l’agognato titolo di studio. Quello studente, con coraggio, ha posto in essere una “sana protesta” contro il sistema dei voti. È stato pure imitato e al contempo vi sono stati precedenti, ad esempio nell’anno scolastico del 2024 in quel di Venezia.
La sua protesta fa emergere il disagio indotto dalla competizione, un modello che spesso viene offerto come unico modello valido in seno alle scuole, che si traduce in meri voti a cui applicare una media aritmetica in sede di scrutinio finale. Mi permetto di ricordare che esiste una competizione “sana”, ad esempio nello sport, che diventa fruttuosa. A scuola, invece, la competizione spesso tende a isolare le persone, a farle sentire sole con il programma da affrontare e i contenuti da memorizzare, più che a sostenere la collaborazione, a ricercare insieme gli obiettivi da conquistare individualmente (dovremmo sposare l’affermazione del celebre maestro Manzi «Fa quel che può, quel che non può non fa»). Invece, in questi anni, ha affermato l’alunno Favaretto «mi è sembrato che i miei compagni venissero ridotti ai loro voti, e che quei voti diventassero un pretesto, per chi andava meglio, per sentirsi superiore e screditare gli altri. Se questo accade, è perché il sistema ci spinge in quella direzione. È ciò che ci viene insegnato».
Ovviamente questo è indice di una sana capacità di effettuare una disamina di una realtà scolastica che può diventare “brutta”.

Sono al contempo particolarmente colpito da tutti i fatti di cronaca, recenti e passati, che imperversano nel mainstream: sconcertante episodio di violenza in classe durante una lezione, una professoressa è stata colpita in pieno da una sedia d’acciaio lanciata da una studentessa; non passa i compiti in classe, e quando esce da scuola le compagne l’attendono per pestarla; docente di diritto ed economia colpito in classe da uno studente 17enne con una pistola a pallini. E dire che il 5 ottobre prossimo sarà la Giornata Mondiale degli Insegnanti…
Questi episodi avvenuti a scuola vengono immortalati in un video che gli studenti poi diffondono sui social… il nuovo modo di comunicare e condividere una bravata violenta e irriverente, in quanto i nostri ragazzi troppo spesso non hanno una risonanza emotiva interiore, sempre più frequentemente non comprendono ciò che è male, non hanno la capacità di esercitare un controllo delle azioni e men che meno pensano alle conseguenze… passano alle vie di fatto (in adolescenza l’acting out, inteso come tentativo di scaricare la tensione emotiva, può essere un modus operandi una tantum, ma ciò che si sta verificando testimonia che non vi sono regole morali interiorizzate e spesso non si ha il lessico-la semantica idonea per esprimere i propri vissuti emotivi al fine di poterli rielaborare linguisticamente e cognitivamente mediante un confronto con i pari e con gli adulti). Si opta dunque per l’azione, qui ed ora. I nostri giovani faticano a capire i confini, in quanto non ricevono i NO, sono abituati ad avere tutto e sùbito, non hanno la capacità di aspettare, chi contraddice il pensiero – il loro pensiero – è indegno; inoltre non sono abituati a fare fatica, come se ciò fosse disdicevole in quanto quasi tutto lo si può ottenere con un click. Scoprire che la realtà presenta anche aspetti “ostici” o faticosi può non essere piacevole, quindi se scopro che studiare è anche fatica, ciò può indurre un conflitto interiore: esco con il mio amico o ripasso perché domani ho un’interrogazione? Scelgo! Mi assumo la responsabilità di fare discernimento su ciò che è bene per il mio essere studente “qui e ora” e questo può indurre anche l’insorgere di una tensione interiore fra il desiderare di uscire con l’amico e il dover studiare (è un dilemma che allo studente con disabilità delle superiori di solito non si pone: non ha compagni di classe amici…)… il coraggio della scelta e la forza dell’azione.
Accanto a ciò assisto a un’incapacità progressiva – nei nostri giovani studenti – a gestire il conflitto esteriore, le tensioni che durante una relazione possono crearsi e men che meno sono abituati ad accettare un punto di vista altrui… se va bene, a mala pena, lo tollerano.
Ecco perché i casi di cronaca segnalano sempre più spesso vere e proprie aggressioni contro gli insegnanti da parte di alunni maleducati, che non sanno stare alle regole… un allarme sociale che da molti anni è sottovalutato e che né le alte sfere politiche né i dirigenti scolastici vogliono affrontare in termini pedagogici, ma solo in termini punitivi.
Altro che rieducare, qui serve educare e formare. Altro che allontanare con la sospensione dalla scuola: serve più scuola. Coloro che hanno comportamenti “disadattivi” hanno bisogno di stare più tempo a scuola e, allorquando al dirigente scolastico ho sottoposto una proposta operativa in cui  necessitava autorizzare la permanenza al pomeriggio, co-costruire un patto pedagogico, pensare e realizzare un itinerario formativo ad personam di “recupero”, per paura di assumersi responsabilità in termini di sicurezza ha semplicemente glissato il problema, dicendo che da un lato non c’erano risorse economiche (scusa patetica), dall’altro che il problema sarebbe stato portato in Consiglio di Istituto (ecco il vero scopo del dirigente scolastico: l’allontanamento dall’Istituzione mediante sospensione).
Quindi, cosa avrà imparato l’alunno allontanato? Avrà compreso e capito cosa significa stare in un gruppo di pari orientato al compito, oppure gli si è comunicato un semplice messaggio lineare: non hai rispettato le regole, espulso! Ma l’aula non è un campo di calcio e l’insegnante non è un arbitro che deve applicare un regolamento da far rispettare per il corretto svolgimento di una partita di calcio; è un allenatore, un coach, un regista che supporta e suggerisce come muoversi sul terreno di gioco, come prestare attenzione allo sviluppo del gioco, al fine di fornire anche il proprio contributo a tutta la squadra calcio alias classe.

Ecco dove sta il vero problema della scuola: la fuoriuscita di molti studenti dal sistema della formazione e ciò si fa molto sentire negli Istituti Tecnici e Professionali (ivi, se va bene, vi sono 3-4 studenti con disabilità per classe e poi i miei specializzandi mi chiamano e mi dicono: «Prof. lo sa?». Ed io «Cosa?». «La normativa è una teoria la realtà è un’altra cosa»… La solita italica ipocrisia: Un diritto che non è esigibile non è un diritto.
Vi è un elevatissimo bisogno di pedagogia nelle scuole italiane, ma questa è una disciplina dimenticata ed è allarme educativo che i nostri giornali e TV riportano solo ed esclusivamente come notizia. Mai un approfondimento, mai un’analisi e proposte concrete da portare avanti: mere e pure chiacchiere associate a vuoti slogan politicamente corretti. E la classe docente si è adeguata a tale “andazzo”… il collega meno impertinente mi si rivolge dicendo «ma lascia perdere, qui non gliene frega niente a nessuno». No, mi dispiace. Sono della “vecchia guardia” e non posso stare zitto poiché chi lo fa è connivente e a me questa deriva non mi sta bene. Per non cadere nel turpiloquio, evito di scrivere ciò che mi è stato proferito.
Un’ipocrisia dilagante e un essere pusillanime che dilaga, un non voler partecipare al processo democratico che vuole incontro-scontro in chiave dialettica, tesa a voler sostenere il cambiamento e l’innovazione che parte solo ed esclusivamente dalla singola persona umana. È proprio tale concetto così ben espresso nella nostra Carta Costituente che viene negato e ciò comincia a interessare la maggioranza dei docenti che, trincerandosi dietro una maschera di fatto, pensano al 23 del mese e a non voler interpretare il ruolo in chiave formativo-educativa (una mia carissima collega, che stimo profondamente, utilizzava in modo sagace la seguente espressione: «Sorrisi finti su volti dipinti», evidenziando, in tali adulti, la palese rinuncia a educare e formare, limitando la loro azione all’istruzione, complice il “programma da rispettare”).
La categoria degli insegnanti, in generale, è esasperata, è messa costantemente alla gogna didattico-educativa ed è costantemente “attenzionata”, ecco perché si è progressivamente ritirata in un cantuccio a eseguire il proprio tran tran didattico disciplinare. Ci si è rifugiati in una zona confort sempre più stretta e angusta in cui il docente è decisamente rannicchiato, persuaso che questa posizione difensiva (che ricorda la posizione fetale) lo possa fare sopravvivere alla bell’e meglio.
Figuriamoci l’insegnante di sostegno… sta diventando evanescente. E che succede a molti miei giovani colleghi? Si adeguano, fanno sempre più quello che gli dicono di eseguire, con ridotto entusiasmo e appena possono scappano dalla scuola.
E in aula che succede? Da una parte vecchi docenti il cui entusiasmo è sotto le scarpe, dall’altra giovani leve che annaspano – pedagogicamente parlando – ma in aula si fanno lezioni che si avvalgono delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), nonostante il clima della classe non appaia dei più idonei. In concreto non si crea un clima apprenditivo adeguato per acquisire neo conoscenze. Ma fare scuola non dovrebbe avere la duplice valenza di istruire-apprendere e di formare-far crescere?
L’iniziale partecipazione alla lezione ben presto si trasforma in reale distrazione (qui evito di evidenziare che si perde un’immane quantità di tempo per gestire il registro elettronico, talvolta si impalla il PC, altre volte la connessione è ballerina, altre è sovraccarica e poi si chiama il tecnico che interviene e si continua a perdere tempo, mentre le spiegazioni sfumano e il prof. sempre più spesso ripete il mantra «ragazzi siamo indietro, ora dobbiamo correre». E che succede ora che bisogna accelerare il passo con lo studente con disabilità o alunno con BES (Bisogni Educativi Speciali), che ha tempi e ritmi di apprendimento lunghi? Delega al docente di sostegno!
Le richieste di acquisizione di conoscenze, nei confronti del gruppo classe, si abbassano di anno in anno, lentamente ma progressivamente e, ops, si scopre che la capacità di comprensione di un testo diventa difficile per il 50 per cento dei nostri studenti in aula. E che succede al nostro studente con disabilità che vuole partecipare alla vita reale con il quale è opportuno-necessario snodare un percorso di crescita personologica secondo una direttrice tridimensionale? Se va bene, viene immerso in una sorta di sala giochi, ove imparerà semplici operazioni con il PC e/o con il tablet… poi, nella realtà, di tutto ciò che se ne farà? Ha imparato a stare con gli altri? Ha acquisito la capacità di vivere le componenti emotivo-relazionali che in un gruppo classe si creano? La classe viene vissuta come una palestra di vita sociale? Oppure lo abbiamo abilitato a usare alcuni strumenti tecnologici che lo fanno stare bene nel “qui e ora” e lo fanno sentire partecipe di una serie di attività, con il PC o con il tablet, che fanno tutti? Non vorrei sbagliarmi ma il rischio, la barriera che intravedo, è che il digitale immersivo separerà ancor di più gli adolescenti (se poi ognuno metterà il caschetto sulla testa e si immergerà nel metaverso…) e coloro che avranno una disabilità intellettiva presumibilmente si divertiranno – come tutti gli altri – ma cosa impareranno? Cosa potranno spendere in un contesto naturale di vita sociale allorquando varcheranno il portone, in uscita, della scuola con la loro certificazione di competenze o diploma?

Ma come si può educare se non ci si espone? Come si può sostenere e stimolare la crescita personologica dei nostri giovani e giovanissimi cittadini se non facciamo leva sulla loro componente volitiva? Ovviamente se il docente è spento dentro, se non ha più una spinta motivazionale intrinseca, come potrà a sua volta motivare e stimolare i discenti? E come approccerà gli alunni con BES? Abbasserà ancor di più i livelli e se gli dico di osare, ovvero di fare una richiesta più alta al fine di offrire una “sfida cognitiva” anche all’alunno con disabilità, mi verrà semplicemente risposto che oramai si chiede poco a tutti, inutile far fare una fatica in più proprio a lui, poverino. Sigh!
Cosa si fa però pragmaticamente per supportare e aiutare i professori? Noi espletiamo un’importantissima attività lavorativa che si caratterizza per essere anche una professione di aiuto, ma chi aiuta noi docenti? Non vi è interesse alcuno, non si stanzia alcun fondo, ma al contempo si pensa alla scuola del futuro immaginando l’introduzione dell’intelligenza artificiale quale materia d’insegnamento e a supporto della didattica. Si sta andando verso il transumanesimo?
Continuiamo a vivere in un’eterna emergenza: da un lato gli psicologi invadono le scuole e continua la medicalizzazione della realtà scolastica – in nome e per conto della dilagante fragilità dei giovani di oggi – dall’altro gli insegnanti tentano di insegnare, ma non credono più che le conoscenze, anche quelle disciplinari, siano necessarie nella vita. Se non conosco, come faccio a divenire consapevole appieno della realtà che mi circonda e in cui sono immerso? Come mai tik tok dilaga nel nostro Paese e viene usato soprattutto dalla generazione Z per video brevi di puro intrattenimento e, di contro, in Cina, ove è nato il social, trovano molto spazio i contenuti educativi? Cui prodest?
Il Ministero e le innumerevoli Direttive che vengono dall’alto aiutano ad orientarsi? Assolutamente no. Mi limiterò a fare un paio di esempi.
1°: si parla e si opera facendo calare dall’alto (consueto approccio top-down), di riformare, innovare… ma come… da oltre 20 anni continuano ad essere calati dall’alto integrazioni e modifiche agli ordinamenti scolastici e gli insegnanti non fanno in tempo a metabolizzare una riforma che va già catabolizzata ed eccone pronta un’altra. Il tutto sempre con lo slogan Tutto e dovuto, Senza ulteriori oneri per lo Stato. L’alunno, però, talvolta va sullo sfondo poiché il docente spesso non ha il tempo materiale per pensare, il giorno prima, agli studenti che incontrerà in classe in aula il giorno dopo, tale è il carico di lavoro procedurale e burocratico-amministrativo che spesso incombe (ogni scuola “produce” circa 2 circolari al giorno con i vari allegati da leggere e rispettare. Si cerca sempre più di irreggimentare, omologare, ma la singola persona umana con chi la posso comparare senza negare la sua dignità personologica?
2°: vi è una sorta di strabismo a livello di Ministero dell’Istruzione e del Merito che, da un lato spinge per l’iperdigitalizzazione – pur nella consapevolezza che le indagini OCSE PISA evidenziano che la diffusione del digitale nelle scuole, operazione diffusasi dal 2012 nei Paesi industrializzati, ha fatto crollare le prestazioni di base dello studente -, dall’altro diffonde, con la Circolare del 19 dicembre 2022, in epoca di “psicopandemia”, un Allegato in cui la VII Commissione Permanente del Senato esprime un parere lapidario nei confronti della diffusione del digitale a scuola, in quanto fa aumentare disattenzione, aggressività e determina disturbi psicofisici dettati dall’uso degli smartphone, affermando al contempo, senza se e senza ma, che è necessario «incoraggiare nelle scuole la lettura su carta, la scrittura a mano e l’esercizio della memoria». Come si conciliano queste due cose? Il docente è letteralmente ostaggio di una situazione ambivalente che porta all’inpasse.

È necessario motivare, ma ancor di più incoraggiare, sostenere, supportare ovvero far leva sulla parte volitiva e il desiderio di fare, che immancabilmente è presente in ogni giovane essere umano. Occorre crederci, ma viviamo proprio in un mondo capovolto, con il docente che ha perso il proprio ruolo sociale e i giovani che paiono un po’ in balia del pensiero unico dominante: divèrtiti, goditi la vita, non ti preoccupare otterrai tutto ciò che vuoi con un colpo di click. Ma come d’incanto, poi, ci si risveglia da tale condizione che definirei di ipnosi di massa e ci si incontra non più nel virtuale, ma ci si scontra con la realtà per quella che è: foriera di fatiche ma anche di soddisfazioni, di noie ma anche di gioie, di frustrazione e gratificazione, di solitudine e di relazioni; sono proprio queste ultime che caratterizzano la specie animale uomo.
Noi docenti veniamo ancora messi nelle condizioni ambientali che possono facilitare il dialogo maieutico, quel dialogo utilizzato da Socrate per portare alla luce le idee, che esistono già dentro l’individuo, ma il cui manifestarsi è ostacolato da credenze che interiorizziamo vivendo nel sociale? Oggi si fa più fatica a tirare fuori qualcosa dall’alunno: a mio avviso serve sia istruirlo con contenuti esterni (con conoscenze che i docenti devono veicolare mediante le materie, riappropriandosi del compito specifico di insegnare), sia arricchirlo a scoprire cosa è nascosto dentro di sé, facendo emergere la componente autentica che è al proprio interno, superando le mere credenze che ci propina la propaganda dei mass media. Per fare ciò ci vuole tempo e paideia, necessita sollevare dubbi e aprire un dialogo, affinché la creatività possa trovare la sua strada per esprimersi. Inutile gridare all’emergenza educativa se non si supportano tutti i docenti, anche quelli meno avvezzi alla tecnologia, nel mettere in pratica metodologie innovative attraverso una didattica attiva e laboratoriale.
Al contempo occorre non accettare acriticamente quanto a noi docenti viene imposto dall’alto, iniziando a chiedersi, ad esempio, quali siano le complessità e le implicazioni della rapida crescita di intelligenze artificiali come ChatGPT, GEMINI e LLM alternativi?

Ecco come leggo in modo positivo la posizione assunta dal giovane studente di Padova: di una dignità elevatissima a tal punto da assumere con coraggio una decisione che sicuramente lo ha danneggiato in termini di voto ottenuto alla “Mmaturità”, ma ha dimostrato che lui è un giovane cittadino maturo il quale esercita la propria capacità di coltivare un sano spirito critico (oggi siamo arrivati alla situazione in cui sul registro di classe nella primaria vengono scritti tutti i voti con cui i bambini identificano il loro sé accademico e ciò è veramente assurdo. Come posso ridurre la compartecipazione al dialogo educativo-formativo ad un mero voto espresso su scala docimologica? Occorre pensare alla cosiddetta valutazione educativa e qui si aprirebbe la necessità di un ulteriore approfondimento).
Altro che criticare tale ragazzo: occorrerebbe riconoscere a lui la volontà di far emergere un’esigenza, assumendosi il coraggio di fare una scelta di campo chiara e lineare; gli si dovrebbe fare un encomio solenne poiché ha dimostrato, sul campo, di essere un cittadino che si assume la responsabilità civile di compartecipare a quello che dovrebbe essere oggetto di un dialogo formativo-educativo sempre presente in ogni contesto scolastico.

Avendo sino ad ora approfittato dell’ampia disponibilità di Lettori e Lettrici che siano qui giunti a leggere senza annoiarsi, voglio concludere evidenziando che a mio modesto parere occorre andare controcorrente e ricorrere all’uso di “gocce di didattica digitale” che possano concorrere a realizzare lezioni innovative con un utilizzo consapevole della tecnologia, associando il tutto ad una sana riflessione pedagogica.
Credo poi che sia necessario riacquisire il senso del limite, ricordando la lezione dei nostri padri greci: agire secondo la “giusta misura” secondo una prospettiva di orientamento pedagogico-formativo, al servizio della crescita armonica della persona umana.

*Insegnante specializzato e consigliere di orientamento.

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