Vita indipendente per tutti: la necessità di un confronto aperto

di Alessandro Manfredi*

 

«Si deve sviluppare un confronto – scrive Alessandro Manfredi – e farlo in particolare all’interno della Federazione FISH, sul tema del rapporto fra servizi e progetto di vita per le persone con disabilità. Questo per poter pervenire a un momento di sintesi, necessario a perseguire un percorso di ulteriore sviluppo delle prospettive di vita di tutte le persone con disabilità, come ben sottolineato da Giovanni Merlo in un successivo intervento pubblicato su queste stesse pagine»

Giovane in carrozzina di spalleSe un merito può essere dato al recente intervento in Superando di Giovanni Marino, presidente dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori di perSone con Autismo) [“Le residenze non sono istituti, ma modelli abitativi progettati a misura dei bisogni assistenziali delle persone”, N.d.R.], è quello di evidenziare la necessità che all’interno della FISH (Federazione per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie) si debba sviluppare un confronto su temi posti in modo molto forte e provocatorio, come ad esempio quello del rapporto fra servizi e progetto di vita per le persone con disabilità. Questo per poter pervenire a un momento di sintesi, necessario a perseguire un percorso di ulteriore sviluppo delle prospettive di vita di tutte le persone con disabilità, come ben sottolineato da Giovanni Merlo in un successivo intervento sempre pubblicato da Superando [“Libere tutte, le persone con disabilità, ma proprio tutte”, N.d.R.].
Questo di fatto ha già preso corpo con gli interventi di Vincenzo Falabella, di Roberto Speziale e Marco Faini [rispettivamente “Una riflessione viva e necessaria su residenzialità, deistituzionalizzazione e democrazia” e “Disabilità: svolgere insieme continue ‘prove tecniche di trasformazione’”, N.d.R.], oltre a quello or ora citato di Giovanni Merlo, che contengono al loro interno diversi punti in comune e del tutto condivisibili.

Il punto di partenza è rappresentato dalla necessità di affermare nel nostro Paese i dettati della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Ritengo che a questo punto sia necessario che il confronto non si sviluppi solo su un organo d’informazione autorevole edito dalla FISH, come è appunto Superando, ma coinvolga gli organismi della FISH stessa, in modo particolare la Giunta e il Consiglio Nazionale, ma anche il percorso congressuale che FISH sta avviando a livello regionale. Non è un confronto da mese d’agosto, ma un tema che dev’essere messo all’ordine del giorno nei nostri organismi, quando riprenderanno le attività ordinarie, dopo la pausa estiva.
Il contributo che voglio portare è quello di una persona che vive il mondo della disabilità da parecchi anni: ho fatto parte di tre Consigli Direttivi della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, attuale componente lombarda della FISH) con Fulvio Santagostini, Franco Bomprezzi e Alberto Fontana, e come presidente sono oramai al terzo mandato; nel mio territorio, quello della Provincia di Lodi, guido il gruppo delle Associazioni da almeno un ventennio. Questo, devo dirlo, senza che, personalmente, la mia famiglia sia stata finora interessata direttamente da problematiche del mondo della disabilità. Sottolineo questo aspetto perché mi porta a considerare con molto rispetto le opinioni, anche divergenti dalla mia, di quelle persone che hanno invece vissuto sulla propria pelle questa esperienza.
Ma come sono arrivato a condividere da parte mia il percorso, fortemente voluto dalla LEDHA, che in Regione Lombardia ha portato il Consiglio Regionale ad approvare all’unanimità il 6 dicembre 2022 la Legge Regionale 25/22, Politiche di welfare sociale regionale per il riconoscimento del diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità?
La mia riflessione si è basata su due considerazioni principali, derivate dall’esperienza che ho vissuto. La prima in merito al sistema dei servizi presenti nel mio territorio, come in tanti altri, che è stato il frutto di tanto impegno e di tante battaglie sviluppate dal mondo associativo per rispondere a problemi di persone e di famiglie che non trovavano adeguata riposta da parte delle Istituzioni.
Nel periodo che va dagli Anni Settanta al primo decennio degli Anni Duemila, questo sistema ha avuto il merito di costituire un effettivo avanzamento nelle condizioni di vita delle persone con disabilità. Ma negli ultimi 10-15 anni, per effetto delle normative introdotte dalle Istituzioni, sta portando a un’eccessiva burocratizzazione, che ne riduce la valenza, anche se siamo in presenza di notevoli sforzi da parte di realtà che fanno parte del nostro mondo associativo, di costruire percorsi che evitino questo rischio. Inoltre, di fronte al fatto che le risorse destinate a questi servizi si stanno progressivamente riducendo, si rende necessario trovare un’alternativa concreta alla residenzialità.

La seconda riflessione, molto personale, si basa sul pregiudizio che anch’io ho vissuto e superato, ma che ritengo sia ancora molto diffuso: considerare cioè le persone con disabilità, soprattutto quelle con gravi compromissioni di carattere cognitivo e intellettivo, come “persone di second’ordine” e quindi non nelle condizioni di potere godere degli stessi diritti di tutti.
La riflessione in merito al dettato della Convenzione ONU, sulla definizione stessa di disabilità, ha consolidato in me la convinzione che ogni persona, indipendentemente dalle proprie caratteristiche personali, compresa la disabilità, è unica e meritevole di un proprio percorso e progetto di vita, scelto autonomamente in base ai propri desideri e alle proprie potenzialità. È necessario, quindi, che la società sostenga le persone con disabilità nella realizzazione di questo percorso e di questo progetto.

Ultimamente, di fronte ai gravi problemi della nostra società, sono sempre più convinto che difendere i diritti delle persone con disabilità voglia dire anche lottare per i diritti di tante persone che, nella società e nel lavoro, vengono messi in discussione.
In ogni caso, ciò non mi ha mai portato, e non ha mai portato l’Associazione di cui sono presidente, a pensare che i servizi oggi esistenti non siano più necessari o debbano essere sic et simpliciter superati. Riteniamo invece, e abbiamo proposto, che le loro funzioni debbano rientrare a pieno titolo in un percorso progettuale scelto autonomamente dalle persone.
Certo, le questioni sono complesse e la strada è ancora lunga: per percorrerla dobbiamo, evidentemente, ancora parlarne e confrontarci in modo sincero e rispettoso.
Riporto, a questo proposito, alcuni temi che mi vengono suggeriti da un consigliere della mia Associazione, che meritano sicuramente di essere approfonditi:
° In quale rapporto possono stare vita indipendente e forme strutturate di residenza?
° Associazionismo e fornitura di servizi possono coesistere? E a quali condizioni?
° L’espressione dellautodeterminazione, quando si considerano situazioni di persone con forte necessità di supporto, in quale modo può essere concretamente giocata per non rimanere una vuota dichiarazione di principio?
° Quali garanzie di maggiore efficacia offrono il budget di salute e di progetto rispetto al finanziamento attuale di servizi a carattere prevalentemente assistenziale?
° La fase di transizione dal modello assistenziale a quello che fa del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato lo strumento principe, quanto accettiamo possa durare? Mesi, anni, decenni?

Mi auguro che questo mio contributo possa essere colto come frutto di una volontà sincera di favorire un confronto sereno nel nostro mondo, e non solo, su questi temi.

*Presidente della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone con Disabilità e Famiglie).

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