«La città non ha un Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche (PEBA)», hanno detto recentemente alcuni Assessori del Comune di Novara. Ma il problema delle barriere continua purtroppo a riguardare molte città italiane, se non la maggioranza, un tema di cui Anna Maria Gioria parla con Pierluigi Benato, architetto attento e sensibile alle questioni legate all’accessibilità e alla disabilità in generale
All’inizio di luglio, alcuni Assessori del Comune di Novara hanno dichiarato apertamente che la città non ha un PEBA (Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche); negli stessi giorni, Pasquale e Flavio Gallo, due fratelli ciechi, rispettivamente l’ex presidente e l’attuale vicepresidente dell’UICI di Novara-VCO (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) hanno compiuto un giro per le vie cittadine, rilevando i molti problemi legati all’accessibilità e alla mancanza di una segnaletica adeguate alle persone con disabilità visiva o un altro tipo.
Con la consapevolezza che la situazione di Novara non è certo un caso isolato, ma che purtroppo essa riguarda molte città italiane, per non dire la maggioranza, abbiamo voluto confrontarci con l’architetto Pierluigi Benato, professionista di Novara che pur non avendo un incarico specifico sulla tematica da parte del Comune piemontese, è molto attento e sensibile alle questioni legate alle barriere architettoniche e alla disabilità.
Architetto Benato, da esperto, qual è il suo giudizio in merito alla recente polemica riguardante le barriere architettoniche di Novara?
«Novara, in verità, non è certo un episodio isolato. Nonostante le normative relative all’abbattimento delle cosiddette barriere architettoniche risalgano a ben oltre trent’anni fa, la risoluzione dell’accessibilità rimane un problema ben lungi dall’essere dapprima pienamente compreso e affrontato. Questo è originato principalmente da due fattori: uno di natura prettamente culturale e psicologica e l’altro derivante dalle caratteristiche fisiche delle nostre città.
Abbiamo la consapevolezza che, in realtà, siamo tutti potenzialmente disabili, in senso fisico e temporaneo, prima di tutto, anche solo perché ci possiamo infortunare, magari solo rompendoci una gamba; secondariamente le disabilità, come noto di natura molto varia, sono anche da intendere in senso cognitivo-intellettivo, una forma ancor più invisibile, anche se questa fosse di lieve entità. La depressione, ad esempio, che, a causa delle nostre difficoltà sociali, è la prima forma di disabilità nel mondo.
Ritornando allo specifico caso di Novara, l’Amministrazione Comunale ha dichiarato di voler rimediare rapidamente all’assenza di uno specifico Piano per l’Abbattimento delle Barriere Architettoniche, il PEBA, introdotto nel 1986, con l’articolo 32, comma 21 della Legge 41/86, e integrato con l’articolo 24, comma 9 della Legge 104/92. Molto recentemente, poi, il Consiglio Comunale di Novara ha nominato il Garante della Disabilità, la prima figura novarese di questo tipo, al fine di garantire anche una forma di ascolto e monitoraggio, tentando così una maggiore inclusione sociale alle varie problematiche.
Personalmente mi sento di affermare che ci vorrebbe più attenzione e credo che – in primis – un’interlocuzione costante e puntuale tra l’Amministrazione e le Associazioni di Categoria eliminerebbe molte lamentele in questo senso e consentirebbe anche di prevenire molti disagi. La lamentela sarebbe originata, a dire dei signori Gallo dell’UICI, proprio da questa indifferenza che hanno lamentato. E la mancanza di coinvolgimento genera sempre malumori… Ritengo però questa sia una circostanza facilmente risolvibile».
Se domani le venisse conferito il ruolo di sovrintendere un piano PEBA, quali sarebbero le prime azioni che promuoverebbe?
«Ritengo sicuramente che il PEBA sia uno strumento prezioso per varie ragioni. Anzitutto, preliminarmente e in termini generali, sono sempre stato dell’opinione che i cittadini – in quanto utilizzatori degli spazi e delle infrastrutture pubbliche, e dunque, naturalmente destinatari delle azioni e delle diverse politiche sociali – debbano sempre conoscere il più possibile, e in dettaglio, le azioni che vengono intraprese dalle proprie Amministrazioni. La conoscenza consente, sempre, di formare il cittadino, lo sensibilizza e ne favorisce la piena presa di coscienza delle varie problematiche. Fungendo anche da pungolo, in talune occasioni. Ciò invece attualmente avviene a mio avviso in modo troppo superficiale e non completamente adeguato. Non basta dire che verrà affrontato quel determinato progetto, con quell’impegno di spesa X e che verrà ultimato entro una determinata data Y (cosa che, notoriamente, di rado viene rispettata). Il cittadino deve, qualora lo desiderasse, poter realmente entrare, agevolmente, nel merito del progetto. Credo fermamente che Enti ed Istituzioni abbiano il dovere di informare in modo dettagliato e trasparente del loro operato, entrando nella descrizione puntuale di un qualsivoglia progetto pubblico. Lo ritengo un dovere: si deve dare al cittadino che lo desideri la possibilità di approfondire, di entrare nel profondo della questione. Se poi questi non lo facesse non importa: il settore pubblico ha ottemperato al proprio dovere offrendone la possibilità.
Arrivo ora al punto. Credo che le prime azioni da intraprendere sul tema PEBA debbano essere una sorta di “Pubblicità Progresso”, una campagna capillare di informazione, mirata, sullo status quo e sulla necessità di intervenire, con alcuni facili esempi da illustrare con dovizia di dettagli e particolari. Questa campagna di informazione, soprattutto preventiva e contemporanea alla redazione di un Piano, si può naturalmente attuare con varie e diversificate forme. Oggi siamo agevolati dai social, ma assolutamente non trascurerei tutte le altre forme, a seconda dei casi. Sempre valida è anche la forma del questionario/sondaggio, ad esempio, da sottoporre anche ai cittadini e soprattutto ai giovani, agli studenti con opportuni workshop, al fine di formare sin dall’inizio una vera e reale cultura di inclusione e uguaglianza. L’obiettivo è naturalmente la sensibilizzazione e la presa di coscienza sul tema su cui percepisco, oggettivamente, ci sia ancora un gran bisogno.
Una seconda azione è naturalmente, in un determinato contesto, l’ascolto continuato e assiduo almeno per tutta la prima fase. Di grande utilità sarebbe il coinvolgimento delle varie associazioni e delle stesse persone con disabilità soprattutto in fase di studio, come i sondaggi, o in certe attività, ad esempio i workshop. Molto spesso i Piani, invece, vengono redatti in modo quasi meccanico, spesso frettolosamente, e dunque si immagina agevolmente che non sia propriamente la modalità più indicata ed efficace».
Quali sono, secondo lei, le maggiori difficoltà e criticità che il Comune di Novara, ma più in generale, tutte le Amministrazioni Locali incontrano nell’attuare l’abbattimento delle barriere architettoniche?
«Ritengo che, banalmente, il limite maggiore sia costituito dall’aspetto economico-finanziario; naturalmente a livello amministrativo, le esigenze sono sempre molteplici e pressanti e certamente non è così agevole poter programmare gli interventi. In diversi casi mi risulta essere carente una valida programmazione in materia, per varie e diversificate ragioni tipiche delle Amministrazioni Pubbliche e anche – non scordiamolo – di tipo culturale. Inoltre, ricordiamo, ad esempio, la complessità delle normative, la mancanza di risorse, la difficoltà nel definire obiettivi chiari e misurabili, la scarsa integrazione tra i diversi livelli di pianificazione. Per le piccole Amministrazioni Pubbliche, in particolare, questo è spesso un problema, anche di organico. Servirebbe una regia operativa, sovralocale e specifica, più incisiva. Parrebbe poi che vi fossero alcune criticità nell’allocazione dei fondi europei a ciò destinati».
Tornando ai PEBA, pensa che se fossero messi in atto in modo adeguato potrebbero risolvere, almeno in parte, il problema?
«Come ho poc’anzi affermato, considero i Piani per l’Abbattimento delle Barriere Architettoniche uno strumento potenzialmente molto prezioso. Essi consentono anzitutto alle Amministrazioni Pubbliche di mappare e poi monitorare in modo capillare lo stato delle criticità per spazi ed edifici pubblici. E programmare e mettere in atto le azioni e gli interventi necessari per ovviare alle criticità e diseguaglianze imposte dalle varie barriere. Il fine ultimo è naturalmente quello di garantire gli importanti e fondamentali diritti costituzionali (l’articolo 16, ma non solo) a tutti i cittadini in tema di mobilità rimuovendone gli ostacoli (le barriere, appunto) che ne limitano la libertà e l’uguaglianza tra loro; cercando di garantire il più possibile la relativa autonomia. Anche la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità prescrive l’accessibilità all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o forniti al pubblico, sia nelle aree urbane che in quelle rurali».
Una difficoltà potrebbe essere rappresentata dalla mancanza di una preparazione specifica del personale preposto?
«Credo fortemente nella cosiddetta “formazione permanente” e nell’aggiornamento continuo. Il mondo cambia e spesso anche piuttosto rapidamente. Non vi è dubbio, in generale, che il personale preposto e addetto – ma è ovviamente un concetto valido per tutti – debba avere un’adeguata e specifica formazione nel merito. Si badi però bene: per esperienza personale ciò che fa la differenza è in questi casi la speciale sensibilità e magari anche l’entusiasmo nell’affrontare e contribuire a risolvere le criticità connesse alla disabilità. Spesso si sono viste persone anche preparate, ma che poi, sul campo, hanno spesso evidenziato problematiche non indifferenti».
Secondo i principi del Design for All, spazi fruibili da tutti, si sta andando verso la direzione in cui si progettano fin da subito ambienti e spazi accessibili a tutti, piuttosto che intervenire dopo. Pensa che sia una valida soluzione?
«Sì, rispondo senza alcuna esitazione: assolutamente e doverosamente sì. Il concetto del Design for All, sottende una “progettazione universale” ovvero per tutti. Ma davvero per tutti, quindi realmente e facilmente inclusiva di ogni persona, che presenti una disabilità o meno. È una definizione relativamente recente, di derivazione americana, nello specifico dal Campus accademico della North Carolina; ma, lasciatemi dire, in qualche modo dovrebbe essere una preoccupazione in parte superflua, in quanto il buon progettare, secondo i principi dei nostri Maestri, già dovrebbe poter tranquillamente includere ogni categoria di persona. Così nella realtà non è, naturalmente.
Vi sono alcuni princìpi di base ai quali naturalmente uniformarsi durante la fase progettuale. Si deve ricercare ad esempio la flessibilità, la semplicità, gli spazi devono essere fisicamente adeguati, equi, utilizzabili con sforzi e fatica minima. Naturalmente, dovendo riutilizzare edifici e spazi che in precedenza avevano altre funzioni o non erano stati pensati in questo senso, dunque con un’operazione di riuso e ristrutturazione, la cosa si potrebbe fare più complessa e difficile. Ma per le nuove progettazioni non vi è dubbio che si debba progettare sin dall’inizio con una speciale attenzione, indipendentemente dal rispetto – ovviamente ineludibile e obbligatorio – delle relative norme.
Aggiungo naturalmente, da architetto progettista, che il tutto dev’essere coniugato con la bellezza, l’estetica e il design sapiente. Architettura ed edilizia sono due concetti differenti, anche per la disabilità. Nel settore pubblico viene fatto un uso molto scarso, pressoché inesistente, della competizione tra progetti, preferendo gli affidamenti, spesso ad personam.
Infine, segnalo che in alcuni Paesi Europei ho molto apprezzato dettagli particolarmente validi nell’esecuzione di soluzioni di design di spazi pubblici. Dobbiamo auspicare in futuro una maggior sensibilità e attenzione anche qui, da parte della classe dirigente, anche se sul punto non sono così ottimista».
*Il presente servizio è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Barriere architettoniche: “Più coinvolgimento della cittadinanza nelle decisioni da prendere” e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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