A scuola l’imperativo è: «Dobbiamo andare avanti!», ma avanti dove? Dobbiamo davvero “correre” a scuola? Siamo sicuri che sia questa la strategia migliore? Dobbiamo per forza assecondare una società che ci impone la fretta a tutti i costi? Che ci impone di “non perdere tempo” con ragazzi considerati “incapaci di apprendere”, di “sbrigare ad ogni costo il programma”, ciò che sembra costituire uno dei principali motivi d’ansia dei nostri insegnanti?
In realtà l’opzione “persona disabile” dovrebbe richiamare costruttivamente alla valorizzazione e alla costruzione di abilità. L’inserimento dei disabili a scuola, infatti – se lo si guarda con interesse professionale – dovrebbe portare a seguire l’alunno “da molto vicino”. Dovrebbe trattarsi, in altre parole, di un’azione complementare al gestire una classe, contribuendo a variare la diversità in “normalità”. La prossimità al singolo, infatti, permette di cogliere le modalità di apprendimento e le loro problematiche.
La scuola italiana si è contraddistinta per avere scelto la via dell’inclusione delle persone con disabilità: un segno di civiltà esportabile, riproponibile, irrinunciabile, una scelta che ha dato il via a un processo che dovrebbe distinguersi per la sua irreversibilità, ma che per motivazioni di varia natura – non ultima quella economica – avverte su di sé il rischio dell’estinzione.
La cultura dell’inclusione è “di là da venire”, come testimoniano tanti istituti di istruzione nelle cui classi gli alunni con disabilità sono numericamente irrilevanti ai fini statistici, tanto sono esigui i numeri dei frequentanti; e lo testimoniano anche i reiterati pensieri espressi, secondo i quali quegli alunni sono «incapaci di apprendere»; lo testimonia, infine, il tempo sprecato a non investire sulla loro crescita, e cioè in ambito educativo (socializzazione e relazione) e di apprendimento.
Eppure le ricerche scientifiche confermano con maggiore insistenza che tutti apprendono. Tutti. In modo e quantità diversa, ma ciascuno di noi apprende.
Genitore.
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