L’articolo 32 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità – adottata il 13 dicembre 2006 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – prevede che venga dedicata attenzione specifica al binomio Cooperazione internazionale e Disabilità.
Abbiamo quindi voluto approfondire questo tema con Francesca Ortali dell’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) e con Giampiero Griffo del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).
Riabilitazione su Base Comunitaria
L’AIFO è un’organizzazione non governativa (ONG) di cooperazione internazionale che opera in particolare in ambito sociosanitario.
Nasce nel 1961 per combattere la lebbra e le cause più profonde delle ingiustizie sociali e dall’inizio degli anni Novanta il suo interesse si allarga anche alle persone con disabilità.
Nell’AIFO Francesca Ortali arriva alcuni anni fa, dando una vera svolta alla sua stessa vita. «Decisamente – ci spiega – visto che sono partita per l’Indonesia e lì ho seguito per loro, per tre anni e mezzo, un progetto di Riabilitazione su Base Comunitaria (RBC) per le persone con disabilità. Dal 2000, invece, mi occupo per l’Associazione dei programmi di sviluppo comunitario e di RBC in generale».
Introdotta all’inizio degli anni Ottanta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la Riabilitazione su Base Comunitaria è una strategia attuabile all’interno dei processi di sviluppo di una comunità, per garantire l’uguaglianza delle opportunità e l’integrazione sociale di tutte le persone con disabilità.
Essa viene messa in pratica attraverso le stesse persone con disabilità, i loro familiari e l’intera comunità, e con adeguati servizi sanitari, educativi, professionali e sociali.
Al momento l’AIFO ha progetti di questo tipo – i cui possibili partner locali sono di natura governativa (il Ministero della Salute o un suo dipartimento) oppure delle ONG che si occupino preferibilmente di attività sanitarie – in India, Indonesia, Mongolia, Nepal, Pakistan, Vietnam, Egitto, Eritrea, Liberia, Brasile e Guiana.
L’adattamento al contesto
Ma vediamo quali sono gli obiettivi di questa strategia e in quale modo essa si sviluppa. «Lo scopo principale che ci si prefigge con i progetti di Riabilitazione su Base Comunitaria – racconta Ortali – è interrompere la sequenza per cui se sei povero avrai poco da mangiare e sarai più esposto alle malattie. Di conseguenza, queste potranno diventare croniche e tu disabile; non potrai più frequentare la scuola, né sviluppare alcuna abilità professionale e nemmeno lavorare, diventando così sempre più povero. È questo il circolo che cerchiamo di spezzare, a vantaggio della qualità della vita e della piena partecipazione della persona con disabilità, passando attraverso una maggiore autonomia nelle attività quotidiane, l’inserimento dei bambini con disabilità a scuola e l’autosufficienza economica.
La RBC opera su due livelli: se da un lato, infatti, essa stabilisce la centralità della persona con disabilità, dall’altro va ad agire anche sulla comunità, che deve diventare più responsabile e consapevole.
Spesso, infatti, quando nasce un bimbo con disabilità in alcuni Paesi, il problema maggiore è di conoscenza, nel senso che le persone non sanno proprio come comportarsi. Portando avanti però delle attività che contribuiscono all’accrescimento di questa conoscenza nella comunità, nella persona con disabilità e nella sua famiglia, si determina un primo miglioramento generale.
Il passo successivo, il raggiungimento cioè di una maggiore consapevolezza, porterà progressivamente anche a una maggiore responsabilità. Alla luce anche della mia esperienza diretta, credo che il fatto più apprezzabile di questa strategia sia proprio che essa si adatta moltissimo al contesto culturale e sociale che trova, riuscendo così ad utilizzare al meglio le risorse locali».
Una serie di passaggi graduali
Ed è innanzitutto con la formazione sul posto, a tutti i livelli – da quello nazionale a quelli provinciali e distrettuali – che si possono raggiungere obiettivi così importanti.
«Se il partner, ad esempio, è governativo, quindi il Ministero della Salute – continua Ortali – vengono prima di tutto formati “a cascata” i suoi rappresentanti coinvolti nel progetto: quelli degli uffici sanitari e dei centri di salute, non solo sui temi della riabilitazione di base, ma anche sugli aspetti economici e quelli sociali. La seconda fase riguarda poi i gruppi di comunità, con i quali vengono organizzati incontri e discussioni – proprio come se la questione riguardasse ciascuno di loro, in prima persona – e ai quali vengono dati gli spunti per partire con il lavoro. Saranno loro stessi, infatti, a condurre l’intero progetto, sapendo meglio di chiunque altro ciò di cui hanno più bisogno e come ottenerlo».
Uno sviluppo strategico complesso, dunque, ma al tempo stesso semplice, se si considera che non prevede forzature, ma passaggi graduali, cui le persone arrivano in modo spontaneo, con il supporto di sistemi di riferimento locali, come quello della salute, dell’educazione, degli affari sociali.
Tra le tante esperienze, Ortali ne identifica una che può essere considerata unica rispetto alle altre.
«Quella della Mongolia, senza dubbio. Qui partner dell’AIFO è il Ministero della Sanità e la RBC viene adottata direttamente dal Sistema Sanitario Nazionale. Tutta l’attività formativa, quindi, si rivolge innanzitutto ai medici del servizio pubblico – dalle province ai distretti e ai sottodistretti – poi a tutti gli altri.
Si tratta di un’esperienza specifica che offre anche la possibilità di ricordare la pratica dei microprogetti: piccole donazioni che servono a collegare e integrare nel modo migliore i bisogni reali e le necessità che arrivano dagli strati più bassi della popolazione. Un’altra particolarità del progetto mongolo, infine, riguarda l’importantissima collaborazione instaurata con la Federazione Mongola delle Associazioni di Persone con Disabilità, proprio quella, cioè, che dovrà essere in grado di portare avanti i progetti in totale autonomia».
Viaggio in Mongolia
Per Giampiero Griffo – rappresentante di DPI (Disabled Peoples’ International) presso l’EDF (European Disability Forum) – parlare di disabilità all’interno della discussione sulla cooperazione internazionale è una questione di grande interesse e urgenza. Dal suo punto di vista, infatti, le organizzazioni di persone con disabilità dovrebbero essere coinvolte direttamente nei progetti di cooperazione, sia per mettere a disposizione le proprie conoscenze che per influenzare i governi e le politiche e fare in modo che i primi aumentino i fondi destinati alle attività delle seconde.
«Uno degli elementi per cui oggi è così importante sostenere la cooperazione internazionale – sottolinea Griffo – sta nel fatto che in essa non trova spazio solo il modello tradizionale della disabilità, ma anche quello che porta le associazioni a crescere, a svilupparsi, a diventare protagoniste e interlocutrici delle autorità locali e nazionali sul tema della disabilità».
E così, muovendo da queste premesse, Griffo – per conto di DPI Italia – e l’AIFO arrivano a lavorare insieme in Mongolia ad un progetto di cooperazione allo sviluppo, definito in gergo di capacity building – ovvero di costruzione e rafforzamento delle competenze e capacità – della Federazione Mongola delle Associazioni di Persone con Disabilità. Perseguendo l’obiettivo di sostenere a livello territoriale, in un Paese povero, il processo di sviluppo e implementazione della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Di pari passo progetto e Convenzione
«L’innovativo progetto – continua Griffo – è stato scritto a quattro mani da AIFO e DPI Italia, e nell’ambito della sua fase di formazione, nel settembre del 2006 mi sono recato personalmente in Mongolia. La mia partecipazione diretta è dipesa dal fatto che si è ritenuto importante che fosse un esperto a livello internazionale – che avesse cioè vissuto l’esperienza del dibattito sulla Convenzione – a trasferire il contenuto di questo documento, in un’ottica basata principalmente sul rafforzamento delle organizzazioni di persone con disabilità. Si è trattato di un’attività di una settimana rivolta a persone che poi formeranno, a livello territoriale, i membri delle varie associazioni e si è svolta attraverso un modulo che ha cercato di trasferire il quadro culturale, gli strumenti legali e le modalità attraverso cui far propri gli strumenti della Convenzione e trasferirli nella legislazione nazionale. Ritengo importante far presente anche che il progetto – proprio perché è riuscito a intrecciarsi con l’approvazione della Convenzione – ha fatto sì che la Mongolia fosse beneficiaria della prima attività di empowerment (“rafforzamento”) per l’applicazione di questo documento. Il progetto, quindi, è diventato ancora più importante.
Si tratta di un ottimo inizio. Adesso, infatti, i referenti della Federazione che noi abbiamo formato diventeranno i veri leader delle attività; sarà da loro che il Governo riceverà ogni informazione nel modo più appropriato e saranno sempre loro che si rapporteranno con l’ONU in modo pronto e consapevole. E poiché si è già costituita un’alleanza con la locale Commissione Nazionale per i Diritti Umani – che in Mongolia c’è, in Italia no… – e con il Parlamento che dovrà scrivere la legge, il rafforzamento di capacità è evidente e il progetto ha così già raggiunto i suoi obiettivi. A questo si aggiunge il fatto che l’iniziativa sarà condivisa non solo dai leader, ma da tutto il movimento e quindi, in un’azione a cascata, coinvolgerà circa duecento persone».
Nel rispetto di storia e identità
«Contiamo in futuro – riprende Griffo – che l’ONU destini un fondo particolare per il coinvolgimento delle persone con disabilita nel processo di ratifica della Convenzione. Per noi si tratta di un elemento essenziale per fare in modo che le associazioni si approprino non solo degli strumenti legali, ma anche delle modalità attraverso cui realizzare monitoraggi, verifiche e politiche di orientamento ai diritti».
Una volta conclusa, questa iniziativa darà vita sia ad un manuale di formazione, che dovrebbe diventare lo strumento per formare altre realtà in Paesi poveri e per trasferire competenze e capacità, sia ad un video, utile a spiegare il senso e le modalità attraverso cui sono state realizzate le varie attività.
Essa rappresenta, quindi, un modulo migliorabile, ma assolutamente trasferibile, come Griffo ci tiene più volte a sottolineare.
Ora DPI e AIFO stanno valutando dove e quando riproporlo, disponendo a questo punto – conclusa l’esperienza in Mongolia nel mese di aprile scorso – di tutti gli elementi necessari per verificare che esso dia effettivamente dei buoni risultati.
«Noi vorremmo riuscire – conclude Griffo – a costruire una leva di giovani cooperatori con disabilità che possano diventare esperti e partecipare alle attività di cooperazione allo sviluppo. Non è assolutamente un passaggio automatico che un esperto di disabilità sappia anche gestire la cooperazione internazionale, per cui serve una formazione specifica. Non possiamo dimenticare, infatti, che il primo compito di un cooperatore è quello di rispettare la storia e l’identità di un territorio, senza sostituirsi a questi, proponendo un modello che non appartiene a quella specifica realtà. Un’abitudine ancora molto diffusa, invece, è quella di pensare che i modelli di intervento buoni nei Paesi ricchi possano funzionare dappertutto; è bensì importante rafforzare le risorse umane locali, garantendo una reale sostenibilità dei progetti anche dopo il loro compimento. Ritengo infine che la nuova legge di riforma del sistema di cooperazione italiano debba includere i principi di mainstreaming [l’inserimento della disabilità in tutti i temi di carattere generale, N.d.R.] e di incremento delle risorse destinate alle persone con disabilità contenuti nell’articolo 32 della Convenzione ONU: questo dev’essere l’impegno italiano per sostenere i diritti dei nostri fratelli nei Paesi in cerca di sviluppo».
La Federazione Mongola delle Associazioni di Persone con Disabilità – assimilabile alla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) -ha la propria sede nazionale nella capitale Ulan Bator e ventuno “filiali” in ciascuna provincia e alcuni comuni. Ad essa appartengono quarantadue associazioni che rappresentano tutte le forme di disabilità, alcune delle quali provenienti dal mondo medico, poiché in questo Paese la distinzione tra organizzazioni di e per le persone con disabilità non è ancora emersa nettamente.
Si tratta di un organismo indipendente la cui rete di attività, instaurata con i Comuni e i servizi sanitari, funziona molto bene, coinvolgendo tutte le realtà che su un territorio possono dare una mano a rispondere ai bisogni delle persone con disabilità. L’intera comunità, quindi, vi collabora attivamente, aiutando ad affrontare le problematiche di natura culturale e di intervento, con notevole capacità organizzativa e una grande dignità nella gestione dei problemi.
*Testo tratto dal numero 161 di «DM», rivista nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e pubblicato per gentile concessione di tale periodico.