Far conoscere, parlare, portare esperienze

di Claudio Arrigoni*
In generale si può attribuire a chi comunica, alle scuole e alle stesse famiglie, se la conoscenza che nel nostro Paese si ha, delle varie condizioni di disabilità, è ancora ben lontana da un livello accettabile. «In questo àmbito - scrive Claudio Arrigoni - c’è ancora davvero molto da fare, ma per cominciare basterebbe far conoscere, parlare, portare esperienze»
Bambini a scuola con le mani alzate
Se sono in genere i più piccoli ad avere maggior “coraggio” nel porre domande sulla disabilità, tanti quesiti arrivano però anche dalle persone adulte

Un piccolo sondaggio senza alcuna pretesa di scientificità: provate ad andare in una scuola media e chiedete cosa significano le parole paraplegico o tetraplegico”. Non è (non dovrebbe essere) un termine difficile, eppure vi accorgerete che la quasi totalità delle persone alle quali lo chiederete non saprà rispondere. Fra quelli che tenteranno una risposta, qualcuno dirà «chi sta in carrozzina» oppure «chi non cammina», altri parleranno di «un disabile», magari associandolo alle Paralimpiadi.
Non bisogna sorprendersi: la conoscenza che si ha della disabilità e/o delle condizioni che possono portare a disabilità è ancora lontana da un livello accettabile. Nelle grandi e nelle più piccole questioni.

Non è colpa delle persone, ma di noi che comunichiamo e di quelle che comunemente vengono definite “agenzie educative”: la scuola e la famiglia su tutte. Appaiono sconosciuti termini come epilessia (quando va bene: «È una malattia, no?») o autismo. Una persona cerebrolesa è confusa con chi ha disabilità intellettiva (e anche qui gli sguardi interrogativi si sprecano).
Eppure basterebbe davvero poco, qualche ora di lezione in un anno scolastico oppure anche solo in un corso di studi. L’educazione civica comprende anche questo: cosa conoscere, come comportarsi, quale atteggiamento avere di fronte alla disabilità. Ma davvero sappiamo così poco sulla disabilità o è solo un’impressione?
Le curiosità che nascono spontanee quando si parla di disabilità sono sempre interessanti, mai banali, anche se possono apparire come tali, ma notano un’assoluta mancanza di conoscenza su un tema che riguarda la vita concreta di milioni di persone. Di solito il coraggio per farle viene dai più piccoli (e nelle scuole elementari o medie inferiori non solo sono assolutamente giustificate, ma è importante che vi siano). Una volta rotto il ghiaccio, però, ci si accorge come siano di tutti e vengano (anzi, ben vengano: meglio sempre cercare di spiegare) anche dagli adulti. E non c’è da vergognarsi a porle.

Per capire, qualche esempio da incontri dove si parlava di disabilità o di sport paralimpico in scuole, in centri di formazioni o in oratori. «Ma come fai a essere sicuro di centrare il buco quando fai la pipì?» (a un campione di show down, sport tipico dei ciechi). «Come ti allacci il reggiseno?» (a una ragazza senza braccia, che fa la ballerina di professione; non una questione fondamentale della vita, ma indubbiamente curiosa). «E come fai quando vai in bagno?» (sempre alla ragazza di cui sopra). «Come fai a vestirti con la maglietta del colore giusto?» (a una giocatrice di baseball per ciechi). «Dove compri i vestiti?» (a un persona con acondroplasia, la forma più diffusa di nanismo). «Non hai paura di non poter scappare se la tua casa brucia?» (a una ragazza paraplegica; sembra banale, ma non lo è per nulla). «Se guidi, come ti accorgi di un’ambulanza?» (a una signora sorda che era arrivata in auto).
Oppure anche questioni più private: «Ma una persona che ha rotto la spina dorsale può avere erezioni? Prova piacere sessuale? Come fa l’amore se non può muoversi?» (domande come queste sono sempre latenti; solitamente vengono fatte a tu per tu dopo l’incontro, difficilmente in pubblico). Si potrebbe continuare, ognuno con la sue esperienza.

Ancora: provate a digitare sulla tastiera del computer le parole paralimpico, paralimpiade, paralimpismo e via di questo passo su un foglio word. Il correttore automatico le segnerà con la sottolineatura rossa: le nota come parole sconosciute, come “errori”. Parole che esistono e che vengono usate da qualche decennio…
Per chi conosce un po’ di inglese (per chi non lo conoscesse, il traduttore di Google va benissimo), il National Center on Disability and Journalism ha un test con dieci domande su definizioni e conseguenti comportamenti, che mostra il proprio livello di conoscenza. È divertente da fare e un piccolo modello di ciò che si potrebbe portare nelle scuole, per introdurre al tema della conoscenza sulla disabilità. Incontri pubblici e dibattiti con persone che vivono questa condizione sono molto importanti. In altre nazioni sono istituzionalizzati, qui da noi sono lasciati alla libera iniziativa individuale.
C’è davvero molto da fare, ma per cominciare basterebbe poco: far conoscere, parlare, portare esperienze.

Il presente testo è già apparso (con il titolo “‘E tu come fai l’amore?’: le domande sulla disabilità”) in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it». Viene qui ripreso, con una serie di adattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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