Le forbici di una società “autistica”

di Franco Bomprezzi*
Perché una vicenda tanto grave, come quella dell’arresto di un’insegnante di sostegno e di un’assistente educativa, per i maltrattamenti inferti anche a colpi di forbice, nei confronti di un ragazzo con sindrome autistica, trova così scarsa eco a livello mediatico? «Forse - secondo Franco Bomprezzi - in un mondo che sembra drogato dalla “civiltà” dell’immagine, nemmeno un fatto come questo riesce a “bucare” il muro dell’indifferenza»

Realizzazione grafica con figura sfuocata e raddoppiata di uomo con la bocca spalancata e il braccio sinistro alzato, su sfondo rossoPer quale motivo un episodio di cronaca gravissimo, come l’arresto di un’insegnante di sostegno e di un’assistente educativa, a Vicenza, per i maltrattamenti inferti a colpi di bacchetta, righello e forbice, nei confronti di un ragazzo con sindrome autistica, stenta a trovare una eco adeguata a livello mediatico? Me lo ha chiesto stamattina, a bruciapelo, l’amico e collega Gianluca Nicoletti, che conduce splendidamente Melog, programma di Radio 24.
La mia risposta ha a che fare con il giornalismo, con un mestiere nel quale la competenza, nel campo sociale, è purtroppo scarsa. Ma il punto è forse ancora più doloroso. Una vicenda come questa è imbarazzante per la sua sostanza, perché in molti, forse troppi, ritengono ancora che un ragazzo con una disabilità impegnativa e difficile da affrontare come l’autismo dovrebbe essere “curato” in luoghi diversi dalla scuola, e comunque seguito direttamente dai genitori, senza essere un “problema” per la scuola.
Ovviamente nessuno lo dice in modo aperto. Ma le forbici non sono soltanto quelle che avrebbero usato le due persone cui il ragazzo era stato affidato (il condizionale è solo per rispetto delle garanzie nei confronti di persone inquisite per reati gravi). Le forbici sono anche quelle di una censura non dichiarata, strisciante e subdola.

Oggi il citato programma di Nicoletti avrebbe dovuto occuparsi soprattutto di parole, e del “parlare civile”, come viene descritto nel bel libro pubblicato da Bruno Mondadori e frutto del lavoro dell’agenzia di stampa «Redattore Sociale», che su questo tema ha organizzato anche un seminario per giornalisti e operatori della comunicazione a Roma, in programma il 18 aprile [“Parlare civile. Il giornalismo e la manutenzione delle parole”, Roma, Sala Conferenze Porta Futuro, 18 aprile prossimo, N.d.R.].
Il fatto è che le parole, come spesso abbiamo scritto anche su queste pagine, sono pietre, e funzionano come filtri per non raccontare la realtà, per chiamarsi fuori, attraverso l’uso degli stereotipi e dei luoghi comuni.
Com’è possibile che una vicenda drammatica e dolorosa – scoperta solo grazie all’intuito dei genitori (il ragazzo autistico ovviamente non parlava, ma manifestava, negli ultimi tempi, un autentico terrore, al momento di essere accompagnato a scuola) e alla collaborazione dei carabinieri, che hanno creduto alle parole del padre e hanno svolto indagini eccellenti, con l’uso di una telecamera nascosta – rimanga confinata nelle cronache di provincia oppure nello spazio dell’ottimo blog di Nicoletti, che per altro è padre di un ragazzo con autismo?

Temo che una ragione – terribile – sia da ricercare nella corretta e doverosa mancanza di immagini. In questo caso non c’è un video da far circolare sul web o nei talk show televisivi. Non c’è nessuno che insegue col microfono in mano. C’è soltanto la notizia, vera e documentata, e i carabinieri hanno semplicemente dichiarato di avere utilizzato la telecamera e la registrazione audio, ma definendo «insopportabili» le scene alle quali hanno assistito. Ci hanno risparmiato dunque le “sevizie in diretta”. E ormai, in un mondo che sembra drogato dalla “civiltà” dell’immagine, anche un fatto come questo non “buca” il muro dell’indifferenza. E la reazione di tutti, in qualche modo, diventa paradossalmente “autistica”: un disagio forte, una difficoltà a comunicare, un silenzio privo di spiegazioni razionali. Vorrei sbagliarmi. Parliamone.

Direttore responsabile di Superando.it.

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