L’intollerabile violenza dell’ideologia

di Donata Vivanti*
O anche, come titolo alternativo, “La giustizia costituisce la miglior forma di terapia”, dal momento che Donata Vivanti si occupa sia del nuovo, terribile caso di violenza su un ragazzo con autismo, a Vicenza, da parte di una maestra e di un’assistente sociale - ora agli arresti domiciliari - ma anche, appunto, di quelle «ideologie insensate che identificano l’educazione speciale con la scuola speciale»

Ragazzo seduto con la testa chinataMichele ha 15 anni. Per mesi è stato insultato, umiliato, picchiato, non da un malvivente o da un bullo di periferia, ma da chi doveva prendersi cura di lui in una scuola che dovrebbe includere tutti, in un Paese che dell’integrazione scolastica si fa vanto e bandiera di eccellenza, ma che ancora non sa pienamente realizzarla.
L’agghiacciante violenza è venuta alla luce grazie a telecamere nascoste nella classe: evidentemente qualcuno ha parlato o sospettato qualcosa. Perché Michele è un bambino mite e non reagisce, non sa raccontare quello che gli succede, forse nemmeno sa che la scuola non è insulti e botte, che le maestre non sono “orchesse malvagie”.
Perché Michele ha l’autismo e non sa comunicare, e in quanto tale è la vittima predestinata della violenza, che, tristemente, si esercita più facilmente quando è possibile esercitarla senza essere scoperti. Anche se avesse reagito, probabilmente non avrebbe ottenuto il rispetto che merita, sarebbe stato etichettato come aggressivo, trattato con farmaci o condannato al marchio di  “intrattabile”, magari per tutta la vita.

Quanti bambini con autismo iniziano a manifestare comportamenti aggressivi quando cominciano ad andare a scuola, e incolpati per questo delle difficoltà a integrarli? I bambini con autismo non nascono aggressivi, se lo diventano è in risposta a comportamenti che non sanno decifrare e che li spaventano, a un ambiente che non capiscono e che non li capisce, a un trattamento ingiusto che li umilia nella loro dignità umana.
L’ingiustizia alimenta l’aggressività da parte di tutti gli esseri umani. Se una persona – con o senza autismo – è costantemente oggetto di abuso, anche involontario, senza mai ottenere riparazione, ne conseguirà eventualmente un comportamento aggressivo verso gli altri. Un terapeuta britannico che lavora con persone con disabilità psichica vittime di abusi ha detto: «La giustizia costituisce la miglior forma di terapia».

Giustizia, dunque, dev’essere fatta, per Michele e per tutti noi, perché Michele è uno di noi, le sue sofferenze, gli abusi nei suoi confronti ci riguardano. Ma quale giustizia? Basterà punire le due maestre “orchesse”? Una delle due, colte in flagrante, si sarebbe giustificata dicendo che era molto stressata. Certamente lo erano entrambe, probabilmente di autismo non sapevano nulla, forse, come tanti, all’inizio pensavano di poter “rompere” con l’amore quel guscio di apparente indifferenza che frustrava i loro tentativi di insegnare qualcosa a Michele. Ma questo con l’autismo non succede: l’amore non basta, ci vogliono solide competenze. Nemmeno il sostegno individuale ha aiutato Michele, anzi, ha permesso che la frustrazione delle sue insegnanti si sfogasse su di lui senza testimoni e senza freni.

Quelle maestre sono certamente colpevoli, ma non hanno tutte le responsabilità. Responsabile è anche un sistema scolastico che chiude gli occhi alle necessità speciali, o risponde in modo inadeguato, con qualche ora di sostegno in più, ma senza dare agli insegnanti gli strumenti per insegnare, almeno nel caso dell’autismo.
Responsabili siamo tutti noi, quando sbandieriamo ideologie vuote per perpetrare l’incompetenza degli insegnanti, travestendola da difesa dell’integrazione.
Oggi si conoscono le strategie per insegnare alle persone con autismo, ma quelle insegnanti, come molte altre, non le conoscono. Oppure la scuola non le adotta per principio, nel nome di quell’ideologia insensata che identifica l’educazione speciale con la scuola speciale, l’emarginazione e l’esclusione. Non è così: non c’è ragione per cui l’educazione speciale non possa essere applicata in un ambiente inclusivo, ne beneficerebbero anche gli altri alunni e i docenti, che non dovrebbero più confrontarsi quotidianamente con insuccessi e frustrazione.

Ma l’ideologia dell’integrazione continua a opporsi all’insegnamento delle strategie di educazione speciale per l’autismo, e a fare vittime innocenti fra gli alunni con autismo. Certo, le buone pratiche esistono, ma non possono riscattare episodi drammatici come questi, per quanto rari possano essere. Non abbiamo più bisogno di buone pratiche, di esempi di eccellenza, abbiamo bisogno di certezze: che i nostri figli con autismo, nella scuola, saranno compresi, rispettati e davvero trattato da uguali.
La Corte di Giustizia del Consiglio d’Europa ha detto che eguaglianza è trattare i pari da pari e i  diversi da diversi. Non per emarginarli, ma per dare le risposte che aspettano e di cui hanno bisogno per essere uomini fra gli uomini, bambini fra i bambini, e non vittime di un mondo inadeguato. Riflettiamoci, prima di scaricare tutta la responsabilità dell’intollerabile episodio di Vicenza su due maestre inette e fragili, senza mettere in discussione il valore dell’inclusione scolastica. La responsabilità è anche nostra e delle nostre ideologie.

Vicepresidente di FANTASIA (Federazione delle Associazioni Nazionali a Tutela delle Persone con Autismo e Sindrome di Asperger); vicepresidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).

Share the Post: