Di norma non guardo le fiction televisive. Le trovo scontate, agiografiche – i protagonisti vengono tutti “santificati” – e vista una puntata, se riesci ad arrivare alla fine, una vocina dentro ti supplica di non fermarti. Per carità: viva la libertà! Ogni regola, però, ha la sua eccezione e, spinto dal nulla televisivo o dal carattere divertente, ultimamente ne ho seguite ben due. Pietà di me ed entriamo nel mondo della disabilità nella fiction.
Allora, dico subito che i miei pensieri ad alta voce non riguardano la fiction in generale, ma le due che ho guardato; certo che se se questi sono i modelli, la riflessione è d’obbligo.
I “frutti del peccato” sono stati le seconde serie di Come un delfino e Benvenuti a tavola, entrambe trasmesse da Canale 5. La prima è la storia di un nuotatore, interpretato da Raoul Bova, alle prese con la mafia e il recupero sociale di alcuni giovani ex delinquenti siciliani attraverso il nuoto.
La seconda, con Fabrizio Bentivoglio e Giorgio Tirabassi, racconta il rapporto di simpatica rivalità tra due chef dirimpettai a Milano. Nella prima la disabilità abbonda, nella seconda non c’è. Partiamo da quest’ultima.
Benvenuti a tavola è ambientata a Milano. Quindi dobbiamo credere che quella che vediamo sia la Città della Madonnina, anche se nella realtà i ristoranti ripresi non esistono e certe ambientazioni non sembrano per nulla meneghine. Il cinema è così, è illusione che ricostruisce una verità. Ecco, in questa verità non ci sono persone visivamente disabili. Neppure che si veda uno in carrozzina, a meno non mi sia sfuggito. Eppure, in città io ne vedo. Luogo comune, dunque, che per la fiction non ci siano passanti in carrozzina o cruda verità?
Ci sono, invece, le barriere. Infatti, il predellino dove poggiano i tavoli esterni dei ristoranti ha il suo bel gradino. E la piazzetta al centro dello spiazzo dove si affacciano i locali, fra il viavai dei protagonisti e dei passanti, pure non sembra avere uno scivolo per salirci. Riecheggia il quesito: luogo comune o è che davvero le barriere ci sono sempre e comunque, mentre le persone con problemi di mobilità no?
Come un delfino è tutta un’altra cosa. Siamo a Roma. Anche qui ci sono le barriere fisiche, altresì quelle mentali e si vedono tutte. C’è tanta disabilità. Fin troppa. Sarà che quello della riscossa è il tema portante della serie.
C’è il ragazzo ex detenuto che non sente, ha problemi psichici e si fa pure settimane, forse mesi, di coma per svegliarsi miracolosamente. C’è quell’altro, anch’egli redento, cui hanno sparato a una gamba, quindi è zoppo e usa le stampelle, si aggrava e rischia di restare completamente paralizzato, finisce in carrozzina, la rifiuta, l’accetta perché ne è costretto e, in ultimo, guarisce con una costosa operazione. Ci sono avversari che stigmatizzano la disabilità e altre volte l’ex appartenenza alla malavita più della disabilità. C’è la ragazza “buona samaritana” che aiuta il giovane ad accettare la carrozzina. Luoghi comuni a raffica o spaccati di verità?
A un certo punto c’è un dialogo particolare. Un uomo, al secolo Maurizio Mattioli, racconta del figlio malavitoso scaraventato dalla mafia fuori dall’auto e rimasto in stato vegetativo su una carrozzina. In quella condizione quasi lo rifiuta. Lo definisce «un vegetale». Quando muore, tuttavia, gli manca. Lo vorrebbe con sé pure in quella condizione. La morte riabilita? E poi: che a volte pesi più l’etichetta della disabilità su quella del delinquente, seppur pentito, e altre volte viceversa?
In entrambe le fiction che ho visto, quindi, il dualismo verità-luogo comune si intreccia fino a diventare un tutt’uno. Sicuri che tanti stereotipi non nascondano un filo di verità?
Il presente testo, qui riproposto con minimi riadattamenti al diverso contenitore, è apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Quando la fiction propone luoghi comuni e magari ci azzecca”. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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