Caro Giorgio Genta, ti scrivo pubblicamente perché condivido solo in parte ciò che hai esposto nel tuo intervento pubblicato su queste stesse pagine [“Si chiama famiglia, la ricetta contro gli ‘ospizi-lager’”, N.d.R.] e anche perché ho l’impellente necessità di portare il discorso su un punto essenziale e fondante di tutte le azioni politiche e non, fatte a protezione degli abusi delle persone incapaci di difendersi da sole.
Il punto è, infatti, che non bastano le telecamere, per garantire i cittadini più fragili, e non bastano i controlli a random dei familiari o di pubblici ufficiali… Ogni strumento utilizzato diventa inutile, se non si supera il “problema dei problemi” che è l’alienazione dell’essere umano e la sua condizione istituzionalizzata.
Immagina la società come un reticolato di scambi relazionali e emotivi, un tessuto grezzo composto da una moltitudine di variopinti fili che s’intersecano tra di loro. Ecco: i punti d’incontro, gli incastri, sono le “persone”. Un individuo, infatti, non è nient’altro che il nucleo dello scorrere incessante di relazioni emotive ed è attraverso la continua dinamica relazionale che un individuo “vive”.
Questo vale per qualunque essere umano, in qualsiasi condizione si trovi: è tale ed è considerato tale attraverso il flusso continuo degli scambi relazionali che avvengono con e attraverso lui… Anche se si tratta di una persona apparentemente isolata dall’autismo o smarrita nell’ Alzheimer o incapace di muoversi o di comunicare verbalmente. Un essere umano rimane “individuo” fino a quando mantiene costanti scambi relazionali ed emotivi.
Ma cosa succede quando un gruppo di persone, che hanno problematiche più o meno importanti, vengono raggruppate in uno stesso luogo? Si forma un “grumo nel tessuto” perché le difficoltà messe insieme non arrivano mai a ridursi, spesso fanno invece da cassa di risonanza l’una con l’altra, fino ad amplificare proprio quelle difficoltà relazionali che sono concausa della condizione di bisogno. E allora accade che il fitto reticolato di relazioni che circonda il tessuto raggrumato, in presenza di quel nucleo esponenziale di criticità raggruppate, comincia a sfilacciarsi, diventa sempre più povero di contenuti, liso nella sua ripetitività senza più senso… consunto, fino ad arrivare a strapparsi del tutto.
Lontano dagli occhi lontano dal cuore, recita con amarezza la saggezza popolare… e infatti è questo che succede anche attualmente, malgrado tutta la legislazione a supporto, nei luoghi di sostegno e di cura istituzionalizzanti. Senza un coinvolgimento emotivo e relazionale, un continuo interscambio d’interesse, l’abuso sfugge anche a una quotidiana vigilanza.
Non sono servite le telecamere e la vigilanza della polizia a salvare Franco Mastrogiovanni; non è servita la telecamera a dissuadere dal selvaggio pestaggio quel detenuto belga, nudo e indifeso, contro i manganelli di un gruppo di militari, resi irriconoscibili proprio dalla loro divisa e dai passamontagna abbassati; e nemmeno i familiari sono esenti dai mali dell’istituzionalizzazione, come nel triste esempio di quella casa famiglia dei malati di Alzheimer. Perché anche una famiglia, se si isola, può diventare istituzionalizzante.
Ma allora non c’è soluzione? Certo che c’è, e la indica bene perfino la legislazione italiana, almeno quella che nel ’78 istituì il Servizio Sanitario Nazionale [Legge 833/78, N.d.R.], assorbendo in toto non solo la Legge Basaglia [Legge 180/78, N.d.R.], ma anche i suoi valori fondanti. Quei valori che non avrebbero mai concepito l’ammassare venti-trenta o più persone con disabilità in un unico posto, come avviene attualmente.
Quei valori che concepivano il diritto ad essere integrati anche per quelle persone fragili rimaste senza famiglia, e che quindi chiarivano – senza le attuali ambiguità – che una “casa famiglia”, una “comunità alloggio”, un “centro diurno”, non dovevano essere composti da più di cinque o sei persone con problematiche gravi, fino ad arrivare anche a otto o massimo quindici, ma solo se i problemi erano moderatamente lievi: dovevano essere «inseriti in modo sparso in comuni case di abitazione di un quartiere», dovevano essere «focolari perfettamente integrati nella rete sociale».
Erano quelle pressioni valoriali che sarebbero inorridite di fronte ad un RSA [Residenza Sanitaria Assistenziale, N.d.R.] e non solo per lo spreco enorme di risorse, ma soprattutto perché – anche se imbellettata – ricalca esattamente quell’idea istituzionalizzante che l’Italia degli anni dei diritti umani e civili universali voleva a tutti i costi superare.
La verità è che – malgrado la profonda e innovativa consapevolezza di quell’Italia progressista e profondamente coinvolta nei diritti umani – le spinte reazionarie hanno avuto la meglio su tutto l’impeto evoluzionistico dell’epoca. Molto prima dell’attuale crisi economica, in Italia ancora ci si riempiva la bocca con i diritti umani e civili, ma si legiferava ricostruendo poco a poco le stesse condizioni espulsive e segreganti che si erano cercato di abbattere.
Le telecamere e le ronde di vigilanza non hanno senso in un contesto integrato dove le energie dell’intera collettività vengono investite nell’integrazione e non nella “gestione controllante” del problema. Un problema, infatti, non lo si concentra, lo si diluisce.
Presidente per il Lazio dell’Associazione Un Passo Avanti (Associazione Genitori Bambini Cerebrolesi), ha creato il blog “Chiara e Simone”, è stata coautrice del libro “Mio figlio ha le ali. Storie di quotidiana disabilità” (Erickson, 2007) ed è oggi curatrice del blog “La Cura Invisibile”, impegnato nella battaglia giuridica per il riconoscimento del familiare caregiver.
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