Da qualche anno a questa parte, la Giornata della Memoria del 27 gennaio è sempre di più l’occasione per riportare alla luce il fatto che, tra le vittime dello sterminio nazista, ci siano state anche le persone con disabilità.
Il cosiddetto programma Aktion T4, che portò all’uccisione di circa 300.000 persone con vari tipi di disabilità (ma il dato potrebbe essere superiore), aveva conosciuto i suoi prodromi non appena Hitler era arrivato al potere, nel 1933, ed è proseguito anche dopo la fine della seconda guerra mondiale.
A mio parere ci si è interrogati ancora troppo poco, non solo su come tutto ciò sia stato possibile e sui silenzi colpevoli, ma soprattutto sui meccanismi sociali e culturali attraverso cui, piuttosto facilmente, il gerarca e il medico nazista si trovino d’accordo con l’uomo della strada sul fatto che, quelle delle persone con disabilità, fossero “vite indegne di essere vissute”. E per altro, siamo proprio sicuri di poter relegare questa percezione solo a quel passato?
In ogni caso, i diritti umani non esistevano, hanno cominciato ad esistere proprio dopo la tragica esperienza nazista. A fare memoria sulle ragioni e sulle meccaniche di questo “sterminio dimenticato” hanno cominciato (non solo in Italia e molti anni dopo quei fatti) le persone con disabilità stesse, associazioni e movimenti ad esse legate.
Quell’esperienza storica, non solo doveva essere conosciuta, ma esprimeva, emblematicamente e alla massima potenza, forme di stigmatizzazione, discriminazione, internamento e violenza di varia natura che le persone con disabilità hanno continuato a conoscere, anche nei decenni successivi e conoscono anche oggi, nell’epoca della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Ovviamente (e ci mancherebbe) non siamo di fronte ai centri di internamento e morte della Germania nazista. Purtroppo, però, alcuni casi li ricordano da vicino, come è emerso negli ultimi anni, rispetto ad alcuni grandi istituti di internamento di persone disabili, oppure come accade negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. La cronaca e alcune inchieste hanno portato alla luce situazioni drammatiche, da lager nazista.
Il mondo della disabilità per primo dovrebbe dunque cominciare a conoscere, discutere, mobilitarsi attorno a questi persistenti lager dell’oggi.
Il testo di legge che istituisce la Giornata della Memoria [Legge 211/00, N.d.R.] non indica la necessità di ricordare che tra le persone sterminate ci fossero quelle con disabilità (né rom, né sinti, né persone omosessuali). Ma le manifestazioni che si sviluppano attorno al 27 gennaio, sempre di più, raccontano anche questi altri stermini. E a ricordarci quei tragici eventi sono associazioni, amministrazioni pubbliche e persino la televisione, già qualche anno fa, con lo spettacolo di Marco Paolini Ausmerzen, spesso riproposto. Sempre di più queste occasioni devono essere un momento per informare e fare conoscere ciò che la gran parte del senso comune, o i ragazzi delle nostre scuole, ignorano ancora.
Ma attenzione anche alla retorica del ricordo! Le manifestazioni legate alla Giornata della Memoria devono essere un avvio, non un approdo. Non dev’essere la tradizionale occasione per mettere in pace le coscienze individuali e collettive, consumando l’obolo offerto alla Storia e alle vittime dello sterminio.
Fare memoria è un’operazione lunga, che parte dalle domande ancor prima che dalle risposte. Fare memoria è un’operazione che non si conclude in un giorno, che ha in mente il passato, ma parte sempre dal presente. È un’operazione che si fa con la ricerca (non necessariamente accademica), con la riflessione condivisa e con il confronto tra persone, situazioni ed esperienze. E non qualcosa che si consuma sui blog o i social network.
Storico, collaboratore della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Il presente articolo è apparso anche in «Persone con disabilità.it», sito curato dalla LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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