Sono le dieci di mattina ed è ora di svegliarmi per iniziare un nuovo giorno. Fra qualche minuto verrà mia madre ad alzarmi dal letto, come sempre dopo avermi chiamato e aver alzato la tapparella della mia finestra…
Incomincia la giornata
Mia madre inizierà sollevandomi le coperte e poi mi staccherà il tubo del respiratore collegato alla cannula tracheale, così inizierò a respirare da solo. Mi attaccherà quindi con un semplice gesto una valvola fonatoria per permettermi di parlare, mentre la macchina si metterà a suonare prima di essere spenta. Sarà quindi il momento dei bisogni e perciò mi posizionerà un pappagallo per farmi urinare e poi mi spoglierà per provvedere all’igiene; per farlo, però, dovrà prima portare faticosamente dei catini colmi d’acqua vicino al letto.
Dopo avermi rinfrescato e rivestito, mi siederà sulla carrozzina elettronica e se la mano atrofizzata me lo permetterà, riuscirò a recarmi da solo in bagno con manovre minime, altrimenti lei piloterà il joystick e giunto al lavandino mi laverà i denti, il viso e mi renderà ordinato perché mi piace sempre essere presentabile.
Dopo circa un’ora e un po’ di affaticamento, mi farò sdraiare su un altro letto, stavolta però nella stanza dove trascorro gran parte del tempo per studiare, comunicare, mangiare e tutto il resto.
Il computer, un occhio sul mondo
Da quella stanza posso accedere al mondo e fare molte cose con i miei computer e tutte le periferiche collegate ad essi, soprattutto grazie ad un puntatore oculare attraverso il quale posso controllare le mie tecnologie con il semplice movimento degli occhi, visto che oramai le mani sono “spente”. A volte, però, prima di mettermi all’opera inizio a tossire e se proprio non smetto, devo farmi aspirare le secrezioni con un sondino e un broncoaspiratore, ma non è doloroso e solo così mi libero per poter continuare a respirare spontaneamente.
Resterò disteso sul fianco sinistro per le successive tre ore, nelle quali leggerò on-line i quotidiani e subito dopo seguirò le lezioni dei miei corsi universitari, oppure, se occorrerà, sbrigherò qualche commissione attraverso internet, come fare la spesa, fare acquisti, pagare le bollette ecc.
Arriverà quindi l’ora di pranzo e sempre mia madre mi darà da mangiare imboccandomi lentamente, dato che la mia bocca mastica a stento e non posso usare le posate; e tuttavia è sempre un piacere gustare buone pietanze e allora sarà un bel momento. Nel frattempo guarderò dal monitor il telegiornale e al termine mi farò portare un buon caffè che berrò ascoltando un po’ di musica per fare così una piccola pausa.
E magari anche una birra…
Attenderò poi l’arrivo di un’assistente preparata che dovrà medicarmi lo stoma tracheale e di nuovo farmi urinare, rimettermi in carrozzina e lavarmi. Inoltre, a volte ci sarà da radermi, tagliare qualche pelo o altre noiose operazioni che qualsiasi uomo deve compiere.
Finito tutto questo e dopo aver trascorso circa un’ora seduto, tornerò nel letto di studio e l’infermiera mi ricollegherà il respiratore, ma se la giornata sarà di sole, andrò prima un po’ fuori per scaldarmi e cambiare aria. Per l’ora di cena riuscirò comunque ad aver fatto parecchie cose senza annoiarmi e alla sera ripeterò tante operazioni fatte al mattino.
Infine cercherò di rilassarmi sul mio divano guardando un bel film, forse in compagnia di amici, e magari mi berrò una birra, prima di farmi portare a letto per dormire e riprendere le energie spese. Mia madre, invece, dovrà girarmi nel letto ogni due ore per tutta la notte…
I dettagli sono tutto
Questa è solo una breve sintesi di una mia giornata da non autosufficiente e se in qualche modo avrà impressionato qualcuno, mi scuso, ma in fondo è una realtà che viviamo in molti e forse potrà fare almeno immaginare quanto lavoro serva per accudire una persona con un grave handicap.
Sarebbe certamente impossibile descrivere tutto, anche perché per le mie condizioni e per potermi assistere i dettagli sono tutto, come la precisione millimetrica che occorre nel posizionarmi, oppure le tecniche di spostamento in cui bisogna conoscere esattamente i punti di presa, dato che nei soggetti affetti da patologie neurologiche come le atrofie o le distrofie, la sensibilità è totale e intensa, quanto la fragilità dei muscoli e delle ossa.
Trovare poi persone in grado di curarci non è affatto semplice e quasi sempre solo una madre è in grado di compiere ogni operazione, perché di solito solo lei lo fa da sempre, ma prima o poi è troppo stanca e bisogna trovare altre risorse.
Anch’io, come tanti, ho cercato e fortunatamente trovato una cosiddetta “badante”, pur se in fondo non ho bisogno che qualcuno “badi a me”, ma semplicemente che mi aiuti nei bisogni che sento e che posso esprimere. La formazione di questa assistente è durata alcuni mesi e alla fine posso fidarmi di darle ogni indicazione, ma ne è valsa proprio la pena, perché così posso essere sicuro e avere anche quel poco di autonomia in più che non ha prezzo, anche se per ora soltanto per qualche ora al giorno, dati i costi letteralmente “impossibili” per chi vive di pensione d’invalidità e di indennità d’accompagnamento.
Va inoltre sottolineato che il poter disporre di una presenza costante e preparata che possa aiutare a trascorrere i giorni nel proprio luogo, permetterebbe di vivere pienamente la vita anche a chi ha problemi gravissimi. Io, ad esempio, non sono per fortuna “un vegetale” e mi piace sentire le belle sensazioni che la vita può offrire; questo, però, deve valere anche oltre le risorse dello stretto nucleo familiare, nel quale manca un certo processo di acquisizione della propria autonomia.
E tuttavia le mie condizioni fisiche sono serie e allora ho bisogno di trovare soluzioni non per sopravvivere, perché nella natura umana tutti cerchiamo solo di essere più felici, bensì per vivere bene – anche se sarò più solo – e comunque per decidere io in che direzione andare con le mie scelte.
Il diritto di scegliere gli assistenti
L’assistenza pubblica attualmente non è sufficiente perché difficilmente consente di avere al proprio domicilio sempre una stessa persona negli orari in cui se ne ha bisogno, oppure di poter personalizzare un proprio piano di vita e creare così con i propri assistenti un forte legame di fiducia, al fine di poter gradualmente insegnar loro tutti i metodi e cercare insieme le soluzioni migliori.
Occorrerebbe quindi puntare ad un’autogestione delle risorse economiche che le strutture sociosanitarie pubbliche dovrebbero elargire, mantenendo, certo, il controllo della spesa e verificando la qualità dell’assistenza, senza però costringere un malato ad accettare le prestazioni di soggetti scelti per appalti o con sistemi analoghi.
Nella realtà italiana fanno bene alcuni Comuni e Regioni che offrono alle famiglie alcuni sussidi economici da spendere per retribuire infermieri o comunque operatori privati, riuscendo così a garantire una qualità migliore dell’offerta assistenziale ai pazienti che possono in tal modo scegliere direttamente il personale da impiegare e soprattutto nel modo più idoneo alle proprie necessità. Così si otterrebbe anche una riduzione dello spreco perché l’unico interesse dei pazienti sarebbe quello di farsi ben accudire, pagando solo chi sapesse realmente farlo. Invece capita spesso che nelle aziende o nelle cooperative convenzionate ci siano “fannulloni” che però è difficile smuovere e dei quali non è semplice controllare l’operato.
Vorrei solo restare a casa mia…
Senza dubbio sono necessarie politiche sociali migliori e ingenti risorse finanziarie per costruire progetti d’assistenza mirati, da applicare ai problemi della non autosufficienza.
Dopo tutto i cittadini come me vorrebbero solo restare nella loro casa con la propria famiglia, ma se non avremo coperture economiche, dovremo per forza pensare di rivolgerci a strutture d’accoglienza esterne perché quasi sempre non possiamo soddisfare nemmeno i bisogni primari come nutrirci, lavarci, vestirci e a volte persino respirare.
Occorrerebbe inoltre qualificare e impiegare persone capaci – oltre che volenterose – ad esempio come le migliaia di stranieri che già svolgono egregiamente queste mansioni, sovente senza essere in regola, e che sono una vera risorsa impossibile da sostituire con i nostri connazionali che purtroppo sempre di meno accettano di lavorare in questo settore, nonostante qualcuno provi a dire il contrario.
Una quotidianità “insolita”
A volte mi capita di sentir parlare o di leggere dei progetti di Vita Indipendente, spesso attraverso belle testimonianze di chi è riuscito ad organizzarsi perfettamente e ha ottenuto in qualche modo tutto il supporto. Contemporaneamente, però, continuano ad emergere dalla cronaca casi di abbandono sociale ed emarginazione, perché è innegabile che il problema esiste e sarà ancora più serio se lo Stato non dimostrerà maggiore attenzione e se la società sarà sempre più insensibile verso chi può sembrare “nascosto”, forse solo perché vive nel suo letto e non ha nemmeno la voce per chiedere aiuto.
È importante però non arrendersi e raccontare con ogni mezzo la nostra quotidianità direi “insolita”, pur rischiando di mettere a disagio la gente che non conosce l’handicap. Credo però che l’informazione sia uno strumento importante per suscitare l’interesse delle Istituzioni o di chiunque può aiutare chi non conta sul proprio corpo, ma ha una volontà e pensa che valga comunque la pena di vivere.
*Socio della UILDM di Varese (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Testo già apparso nel numero 166 di «DM», periodico nazionale della UILDM, e qui ripreso per gentile concessione.
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