Accertamento dell’invalidità: ogni persona fa storia a sé

di Maurizio Gaido
«Quando si parla di accertamento dell’invalidità - scrive tra l’altro Maurizio Gaido - l’obiettivo dovrebbe essere quello dell’inclusione sociale, lavorativa e più in generale della riabilitazione e della vita autonoma, tramite una personalizzazione delle valutazioni e degli interventi. Le categorie, infatti, vanno bene solo per le statistiche, ma le persone e le famiglie sono tutte diverse ancorché presentino una stessa diagnosi»

Uomo con disabilità davanti a una finestra con grataDopo avere letto le dichiarazioni di alcuni esponenti politici sulla necessità di riforma del sistema di accertamento dell’invalidità civile, mi sono letteralmente venuti i brividi. Chi parla infatti di questi argomenti ha sempre come obiettivo quello di risparmiare e non si tiene mai conto che il vero risparmio sta prima di tutto nel fare bene il proprio lavoro.

Esiste ormai da tredici anni la Classificazione ICF [Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001, N.d.R.], che ha radicalmente modificato il punto di vista sulla disabilità in generale e in Italia non solo non è applicata, ma non è neanche conosciuta dalla maggior parte degli operatori perché non si è mai investito nulla in formazione e in cultura sulla disabilità, se non nel senso della cultura del sospetto sui “falsi invalidi”, supportata da un nugolo di giornalisti e politici qualunquisti, ignoranti e in malafede.

Il problema della disabilità va affrontato collegandolo a quello della riabilitazione, del soggetto e della sua famiglia. In altre parole, l’obiettivo non dev’essere quello dell’accertamento – che rimane un punto importante, ma di un percorso ben più complesso – bensì quello dell’inclusione sociale, lavorativa e più in generale della riabilitazione e della vita autonoma.
In questo percorso, anziché medici legali e di commissioni dovrebbero esserci counsellor, psicologi, esperti di ausili,riabilitatori, disability manager, assistenti sociali, educatori, puericultori ecc., cioè figure professionali con obiettivi di affiancamento, formazione, educazione, in una parola di aiuto nella sua accezione più ampia e articolata. E l’obiettivo, come detto, dovrebbe essere quello dell’inclusione sociale e lavorativa e non quello pur importante di elargire elemosine insufficienti e ridicole, se non offensive, per la persona interessata e la sua famiglia.
Questo sì che porterebbe a un risparmio certo perché sarebbe indispensabile una personalizzazione delle valutazioni e degli interventi. Una delle logiche più devastanti, infatti, è quella di fare di ogni erba un fascio: le categorie vanno bene solo per le statistiche, ma le persone e le famiglie sono tutte diverse ancorché presentino una stessa diagnosi e le esigenze cambiano anche solo per la diversa fase di vita, oltre che per le caratteristiche personali o della famiglia o del contesto.
Perché non si guarda cosa fanno in altri Paesi, dove da molti anni si parla di bisogni e si personalizza il percorso con verifiche periodiche degli obiettivi e dei bisogni, invece di continuare a parlare solo per “dare aria ai denti” e fare danni alle persone e alle loro famiglie?
Il sistema dovrebbe tutelare e aiutare le persone in difficoltà e le loro famigli e invece è un ostacolo, fonte di continue arrabbiature, offese e umiliazioni.

Credo in conclusione che occorra cambiare radicalmente l’approccio: si deve cioè creare un sistema virtuoso che favorisca l’inclusione e l’autonomia. I (pochi) truffatori si escluderanno da soli.

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