Se dovessimo stilare una classifica delle parole più usate in quest’ultimo periodo credo che riforma occuperebbe senza alcun dubbio la prima posizione. È tutto da cambiare: rottamando, tagliando, bloccando e, naturalmente, riformando. Cosa, come, e soprattutto con quale obiettivi, non sempre è chiaro. Ciononostante abbiamo riforme – o intenzioni di riforme – per tutti i gusti. Istituzionali in primis, quindi politico-sociali; economico-finanziarie; didattico-formative. Riforme di modo e maniera. Di facciata e sostanziali. Reali e fittizie, perché la parola d’ordine è rivoluzionare.
Un tempo, che non sarebbe lontano – ma per quanto accaduto in questi ultimi trent’anni sembra un’era geologica fa -, le rivoluzioni si facevano per un’idea, anzi – diciamo pure questa “parolaccia” – per un’ideologia. Oggi tutti si affrettano a rassicurare l’opinione pubblica che il proprio programma non è ideologico. Ma è davvero una garanzia non sapere verso quale direzione ci si sta incamminando? È davvero opportuno per risollevare questo nostro Paese dimenticare persino in quale ala del Parlamento ci si siede?
Destra e sinistra non sono due facce della stessa medaglia, o almeno non dovrebbero esserlo. Aboliamo pure le ideologie, ma il liberismo sfrenato non può sposarsi con un’idea di sinistra, questa sì riformista, che qualcuno qualche decennio fa aveva già delineato. Perché essere un politico vuol dire essere capace di guardare oltre l’orizzonte, di predisporre oggi quanto servirà domani, non stamattina o, peggio, ieri. Ma tutto ciò è storia, e in un’epoca dominata dall’istante, trova degno spazio nelle biblioteche, magari in un documentario, ma non nelle visioni e nei programmi di un partito.
Alla storia si preferisce la cronaca, il fatterello spiccio, il proclama fulminante, l’immagine dirompente. La sintesi ha avuto la meglio sull’analisi e sull’approfondimento, e la conoscenza, che ha invece bisogno del tempo dello studio e della riflessione, è sempre più frammentata, distorta, parziale, facilmente fuorviata da un’informazione che ha privilegiato «rassicurazioni di maniera», come Edmondo Berselli definì le troppe voci che soffocarono mediaticamente la crisi finanziaria, quindi industriale e sociale, spargendo nubi soporifere di omissioni e false verità.
I dialoghi sono sempre più monologhi a più voci, i confronti sempre più subordinati ad aut aut in nome, ad esempio, dell’Europa che ci chiede, del lavoro da salvare, dello spread da contenere, del fiscal compact da rispettare.
Vien da chiedersi se ci sia l’intenzione di porre un limite a quanto siamo disposti a perdere in termini di dignità, equità, solidarietà, per guadagnare, forse, qualcosa in pseudocrescita. Pseudo perché qualsiasi forma di “crescita” che non rispetti i diritti umani e i principi ad essi legati, al di là dei proclami, non è progresso, non è benessere, non è sviluppo. È rapacità. Che avvenga in nome di un possibile successo elettorale, dell’arricchimento personale, dell’appartenenza alle lobby, poco importa. Si tratta sempre e comunque di corruzione, della forma più grave, quella che intacca l’anima e che ha incassato la più dura reprimenda di Papa Francesco.
Occorre riscoprire «il carattere nobile dell’azione politica che può rinascere solo dall’etica», ha incitato Alain Tourraine, sociologo francese tra i più acuti, nel corso di un’intervista pubblicata qualche mese fa dal quotidiano «la Repubblica», affinché si superi quella commistione tra società ed economia che ci ha traghettati in un’epoca post sociale, dove urge riprendere in mano i diritti e la loro difesa perché essi “stanno al di sopra delle leggi”, in quanto rappresentano i pilastri su cui posa la costruzione di uno Stato democratico.
Purtroppo la cronaca – questa volta dobbiamo ricorrere a lei perché i fatti sono recentissimi – ci indica soluzioni che si muovono in tutt’altra direzione politica. Non la tutela dei diritti, ma del mercato; non del corpo-persona, ma del corpo-merce; non del lavoro che genera futuro, ma che alimenta il profitto; non della promozione della creatività individuale, ma di cartelli d’imprese e multinazionali.
Sopra le nostre teste, infatti, sta passando un accordo che potrebbe cambiare radicalmente le nostre vite e che sembra ridurre l’influenza esprimibile da ordini professionali, sindacati, think tank [“centri di pensiero”, N.d.R.] accademici, a quella esercitata da una riunione scout del giovedì pomeriggio all’oratorio. I giochi sono in atto a Bruxelles e sono tanto importanti da aver rappresentato uno dei motivi della visita del presidente degli Stati Uniti Obama, che in Italia e in Europa è venuto a ribadire la sua intenzione di «migliorare le condizioni comuni di prosperità e sicurezza». La traduzione di questo intento che ridisegnerà la mappa dei diritti e delle tutele, e che, inspiegabilmente, è stato pressoché ignorato dai media, è Ttip, ovvero Transatlantic Trade and Investment Partnership, un accordo di libero scambio che il commissario europeo al Commercio Karel De Gucht ha definito «il più grande accordo commerciale dell’Unione Europea». E non potrebbe essere altrimenti visto che stiamo parlando di un’area del mondo (Unione Europea e Stati Uniti) che nel suo insieme rappresenta più del 40% del Prodotto Interno Lordo mondiale. L’accordo è secretato e passerà dalla Commissione al Parlamento solo per l’approvazione o il rifiuto, ma nessun emendamento sarà possibile.
Come è stato ripreso dall’Agenzia Ansa, durante il viaggio nel Vecchio Continente, Obama ha puntualizzato che una delle «principali priorità, nel rapporto con l’Europa, è quella di concludere il Transatlantic Trade and Investment Partnership. Un successo del Ttip avvicinerebbe ulteriormente le nostre economie, renderebbe i nostri Paesi più competitivi nell’economia globale, spingerebbe la crescita e sosterrebbe la creazione di nuovi posti di lavoro». Per questo, ha concluso, «confido nella presidenza italiana che inizierà in estate per raggiungere questi obiettivi» e «sono fermamente convinto che arriveremo in porto». Buone notizie, dunque? Vediamo.
Nella traduzione del rapporto A Brave New Transatlantic Partnership, curata dall’Associazione Attac Torino e usata per le informazioni che seguono, si legge che lo sdoganamento di una più accesa competizione tra settori americani ed europei potrebbe accrescere ancora il divario tra il centro e la periferia in Europa, anche a causa del forte abbassamento del livello di tutela del consumatore. Potrebbe aprirsi l’accesso ad organismi geneticamente modificati, carne agli ormoni e polli disinfettati con il cloro; mentre la normativa europea, attualmente più rigorosa di quella statunitense riguardo al benessere degli animali o all’uso in agricoltura di pericolosi pesticidi, dovrebbe adeguarsi al ribasso.
Procedendo verso il minimo comune denominatore, si troverebbe in pericolo la moratoria in vigore nell’Unione Europea sulla controversa estrazione del gas di scisto e il regolamento europeo per la registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche (REACH), rendendo più agevole aggirare «l’obbligo di sperimentazione per migliaia di prodotti tossici».
Sul fronte dei diritti civili, quindi, potrebbe palesarsi una nuova minaccia, come già avvenne con l’ACTA, l’Accordo Anti-Contraffazione nel Commercio, che il Parlamento Europeo respinse perché accolse la tesi sottolineata dal suo relatore, il deputato David Martin, secondo cui le libertà civili sono sempre prioritarie rispetto alla protezione del diritto di proprietà. Fondamentale per tale risultato fu anche la forte mobilitazione internazionale contro la ratifica di un atto che secondo i critici, dalla lotta alla pirateria avrebbe sconfinato nel controllo sulla produzione di farmaci e vaccini generici a basso costo. Ma questa volta il negoziato è “a porte chiuse”, fuori dalla supervisione parlamentare, per cui il rischio che i cittadini non riescano a tutelare i loro diritti civili è più che verosimile.
Per quanto poi riguarda gli aspetti strettamente legati al diritto alla salute, che la crisi finanziaria e le conseguenti politiche di austerità hanno già messo a dura prova, vi è il rischio che il Ttip non faccia altro che accelerare la spinta regressiva. Con l’apertura, infatti, alla concorrenza di operatori privati d’Oltreoceano, i costi sanitari potrebbero aumentare, riducendo ulteriormente le possibilità di accesso alle cure. Allo stesso tempo, il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale potrebbe mettere alcuni farmaci fuori dalla portata economica dei pazienti, anche perché farmaci equivalenti meno costosi non potrebbero essere ammessi sul mercato.
Se ad esempio l’Unione Europea dovesse cedere a questa forte pressione dell’industria, non sarebbero più possibili vittorie come quella registrata ad aprile dello scorso anno dall’India, contro cui la Società Novartis aveva avviato una causa nel 2006 per non averle concesso un brevetto per una nuova versione di un farmaco oncologico. La Corte Suprema indiana, infatti, ha stabilito nel suo verdetto che l’industria locale può produrlo come farmaco generico a basso costo perché non è una nuova invenzione, ma la semplice riformulazione di uno stesso prodotto.
Ma non è tutto. I cosiddetti provvedimenti di composizione delle controversie tra investitori e governi, per cui la Commissione si sta adoperando affinché siano inseriti nell’accordo, darebbero alle multinazionali nuovi poteri per denunciare le politiche volte a tutelare il pubblico interesse. Le imprese americane che investono in Europa sarebbero autorizzate ad aggirare i tribunali dell’Unione Europea e a citare direttamente in giudizio i governi davanti a tribunali extra-territoriali ogniqualvolta ritenessero che le leggi riguardanti la salute pubblica, l’ambiente o la protezione sociale condizionassero i loro profitti. Esempio ne è la citazione in giudizio dell’Uruguay e dell’Australia, accusati dal gigante statunitense del tabacco Philip Morris di essere causa della sua perdita di profitti per le restrittive leggi nazionali antifumo.
E un’altra vittima del Ttip – come abbiamo detto – sarebbe anche il citato REACH, simbolo della legislazione comunitaria sulla sicurezza chimica, che negli Stati Uniti molti consumatori e movimenti per la salute e l’ambiente hanno tentato di imitare e che, in base al “principio di precauzione”, permette all’European Chemical Agency di imporre restrizioni sulle modalità con cui i prodotti chimici vengono realizzati, venduti e utilizzati, al fine di proteggere la salute pubblica e l’ambiente. Negli Stati Uniti, invece, le norme sui prodotti chimici sono più permissive e l’Us Toxic Substances Control Act (TASCA) attribuisce poteri molto limitati alla Environment Protection Agency (EPA).
Attualmente circa 30.000 prodotti chimici associati all’aumento dei casi di cancro alla mammella e ai testicoli, di infertilità maschile, diabete e obesità, sono ancora in commercio negli Stati Uniti, ma non hanno fatto il loro ingresso in Europa per la vigenza di norme rigorose che potrebbero avere vita breve. È del tutto improbabile, infatti, che la progettata “regolamentazione armonizzata” tra le due parti del Ttip porti a norme più rigide sui prodotti chimici, mentre è plausibile il contrario, proprio come avvenne con il NAFTA (North American Free Trade Agreement), che portò a indebolire le tutele sanitarie negli Stati Uniti e che con la sua entrata in vigore nel 1994 consentì a una multinazionale di intentare una causa legale multimilionaria contro il Canada, per aver voluto proteggere il suo servizio sanitario dal pericolo di cadere in mano al business.
Il quadro che si prospetta, quindi, non è roseo. Basterà a far capire a tutti noi cittadini che non c’è più tempo, che occorre organizzarsi e costruire – subito – una barriera contro l’espropriazione dei diritti, in corso con il placet dei governi, affinché opportunità non si coniughi con speculazione, tutela con protezionismo, libertà con assenza di regole e profitto a ogni costo?
Giornalista e scrittrice. Il presente testo appare anche in «Quotidiano Sanità», con il titolo “Se l’Europa fa marcia indietro sui diritti e le tutele. Tutti i rischi del nuovo accordo con gli Usa” e viene qui ripreso, per gentile concessione, con minimi riadattamenti al diverso contenitore.
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