Come un altro grande artista prima di lui, che rispondeva al nome di Antonio de Curtis, in arte Totò, anche Sergio Staino si è dovuto scontrare, ad un certo punto della sua carriera, con una forma di disabilità visiva. Resa pubblica solo a distanza di molti anni, questa condizione ha sicuramente creato dei vincoli all’autonomia del celebre disegnatore, senza però intaccarne il proverbiale senso dell’ironia e, soprattutto, dell’autoironia.
È con questo stesso spirito, quindi, che abbiamo affrontato la questione direttamente con lui. Il quale, senza falsi pudori, ha accettato di rispondere alle nostre domande, condividendo apertamente e con onesta naturalezza la propria situazione con i nostri lettori. (Crizia Narduzzo)
Per quale motivo ha deciso di rendere pubblica la sua disabilità visiva dopo tanti anni? O cosa le ha impedito di farlo prima?
«Ne ho parlato quando è diventata evidente. Per un lungo periodo ho bleffato, cercando abilmente di camuffare in distrazione tipica degli artisti che hanno sempre il cervello fra le nuvole i tanti momenti imbarazzanti in cui mi venivo a trovare per colpa della miopia. Come, ad esempio, quando mi è capitato di infilare la mano in un vassoio di panna, pensando, invece, di prendere un tovagliolino bianco…».
Che tipo di evoluzione ha avuto nel tempo la sua condizione?
«C’è stata una progressiva diminuzione della mia autonomia. Dopo la prima rottura della retina, ho trascorso alcuni mesi allenandomi alla riconquista di una “mobilità indipendente”. E quando mi è sembrato di averla sufficientemente recuperata, sono partito per Vienna, da solo.
Non conoscevo la città, e non parlavo all’epoca – come non parlo tuttora – una parola di tedesco: avevo solo un’amica modenese, che viveva lì per specializzarsi in ecografia, la quale rappresentava l’unico mio possibile appoggio. “Se sopravvivo lì – ho pensato – ho svoltato”. E in effetti così è stato, ho svoltato. Da quel momento, infatti, mi sono reso conto che il cervello è una macchina talmente meravigliosa che cerca continuamente di migliorare il proprio funzionamento, per sopperire nel mio caso alle diminuite informazioni che gli arrivano dall’occhio».
Come o cosa le ha permesso di continuare a lavorare?
«La cosa più importante è stato il mio successo editoriale. Il fatto di pubblicare, di vendere e di ricevere dei soldi mi ha dato la possibilità di avere vicino delle persone come aiutanti.
Innanzitutto mio figlio Michele, che fortunatamente è un grande appassionato del fumetto, buon disegnatore e abile operatore al computer, con cui ho costituito la “Sergio Staino Produzioni srl”. Oltre a lui ho di solito a fianco un’altra persona, generalmente giovane, ragazze che mi leggono giornali, libri, posta elettronica.
E poi ci sono strumenti elettronici molto sofisticati, dalla sintesi vocale per leggere e scrivere, fino ad uno schermo-tavoletta su cui si disegna come fosse un foglio di carta.
Quello che mi rimane da fare, quindi, è l’ideazione della vignetta – cosa in cui l’occhio c’entra ben poco – e un disegno sufficiente ad essere poi corretto e aggiustato dai miei collaboratori».
Ritiene che questa situazione fisica abbia condizionato il modo di presentare nei suoi lavori la realtà, le cose del mondo?
«Sostanzialmente no. Credo che quello che penso e che ho voglia di dire attraverso il disegno lo avrei detto sia vedendoci, sia, com’è invece ora, vedendoci quasi nulla. Casomai il cambiamento c’è stato nell’immagine: più nette e dettagliate erano le immagini che realizzavo quando ci vedevo, più frammentarie, ma anche più dense di atmosfere, le immagini che costruisco adesso».
Nel momento in cui, nella vita e nel lavoro, è venuto a mancarle il sostegno della vista, da quali altri stimoli e sensazioni si è lasciato guidare?
«La parola, il racconto, l’incontrarsi, lo scambio di idee e di esperienze. In fondo, di immagini ne ho la testa strapiena e le espressioni di un volto non sono una gamma infinita. Quel che si rinnova, invece, sono le emozioni. Io racconto quelle, che non si raccolgono solo con gli occhi. Al contrario».
Cosa pensa dei diversi modi che vengono usati oggi per parlare alle persone di disabilità, per sensibilizzarle su questo tema? Ci riferiamo alle mostre realizzate con vignette di grandi creatori – tra cui lei stesso – dedicate al tema della disabilità, oppure a calendari realizzati con foto e disegni che ritraggono persone con disabilità o ancora a cartoni animati dedicati a questi temi. Quale potrebbe essere, a suo avviso, una modalità chiara e non pietistica per sensibilizzare sulle tematiche legate alla disabilità?
«Quando c’è dell’ironia e dell’autoironia, è sempre un bel segno di intelligenza. La comunicazione, poi, arriva meglio. Io, almeno, cerco di raccontare la mia malattia in questo modo. Con questo credo di non togliere un grammo alla solidarietà che le persone che mi sono vicine mi offrono, in compenso io non rompo loro troppo le scatole.
E poi, riflettendoci bene, chi sta veramente bene su questa terra? Pochissimi. La maggioranza delle persone porta dentro di sé una o più disgrazie, uno o più dolori. Ci pensiamo che mondo terribile sarebbe quello in cui tutti stiamo a piangere sulla spalla dell’altro? Molto meglio prendersi in giro a vicenda, si alzano i bioritmi e si soffre di meno. E forse siamo anche più utili al mondo».
La presente intervista è tratta dal n. 165 (marzo 2008) di «DM», periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e qui riprodotta per gentile concessione.
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