L’immagine che qui a fianco pubblichiamo è orribile. Una carrozzina pieghevole, vuota, sopra un mare di macerie. Siamo a Beit Lahia, a nord di Gaza, dopo un raid aereo di Israele che, tra i vari obiettivi, ha distrutto anche un centro per disabili.
Le notizie, come sempre in questi casi, sono scarse. Ma tre bambine ospitate nel centro sono morte. Di loro non sappiamo nulla, per ora. E neppure possiamo sapere dove adesso siano finiti gli altri, uomini e donne disabili, che erano all’interno del centro.
Ha scritto Davide Frattini sul «Corriere della Sera» del 13 luglio: «I colpi di avvertimento lasciati cadere da due droni prima dell’alba non li hanno svegliati e anche avessero sentito quel doppio rintocco sul tetto sarebbe stato difficile per loro riuscire a fuggire. Jamala Alaywa ha creato l’istituto nel 1994 a Beit Lahia, nord della striscia di Gaza, verso il valico con Israele. Ospita tredici pazienti, al momento dell’attacco la maggior parte era in visita dai parenti per il fine settimana, a celebrare in qualche modo il Ramadan».
Cinque minuti per scappare, cinque minuti per sopravvivere. Pochi per chiunque, nulla per chi non capisce o non sente, o non vede, o fa fatica a muoversi velocemente. Ossia per ogni persona con disabilità.
Certo, la spiegazione israeliana è sempre la stessa: volevamo colpire un miliziano di Hamas, un obiettivo militare, dunque, sapendo che si rifugia proprio in luoghi che ritiene al sicuro, non bombardabili. Dunque sicuramente un centro che ospita persone disabili. Può darsi che sia vero, e che dunque una parte di responsabilità morale ricada anche su chi si fa scudo incoscientemente di persone civili del tutto ignare di quanto sta accadendo. Ma anche non volendo entrare nel “gioco perverso” delle giustificazioni e delle reciproche accuse, resta il fatto inoppugnabile che per ragioni militari hanno perso la vita e la serenità persone che nulla hanno a che fare con la guerra, e che già vivono sulla propria pelle, nel corpo o nella mente, i segni di una fragilità, di una menomazione, di una disabilità. E’ inaccettabile, è terribile, è disumano.
I tempi di fuga e di evacuazione delle persone con disabilità, sia in caso di guerra che di evento naturale (terremoto, inondazione, frana), sono ben diversi e più lunghi rispetto a quelli di chi può muoversi in autonomia. Quanto è accaduto il 12 luglio è un crimine gravissimo. Senza contare che la distruzione di uno dei pochi centri dedicati a curare e assistere persone con disabilità, a Gaza, è un danno al quale sarà quasi impossibile rimediare, specie continuando lo stato di conflitto armato.
E non dimentichiamo che ogni guerra, al di là del conteggio dei morti, contempla e prevede una vera e propria “fabbrica della disabilità”: amputazioni, paraplegie, cecità, sordità, fratture scomposte, ferite invalidanti. Un elenco infinito, che ben conoscono i centri di riabilitazione italiani nei quali, a ogni conflitto, arrivano per una prima riabilitazione o per la fornitura di protesi e di ausili, le vittime di Paesi lontani. È il volto nascosto della violenza internazionale, che non ha mai fine, che si sposta di latitudine o di longitudine, ma che sempre mantiene le medesime caratteristiche di crudeltà e di rovina umana.
Ecco perché quanto accaduto nella Striscia di Gaza ci riguarda, come persone, come cittadini del mondo, come persone con disabilità.
Direttore responsabile di «Superando.it».
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