Gerison Lansdown ha costituito senz’altro il punto di riferimento per l’International Disability Caucus nel corso delle trattative sui diritti dei bambini che si sono svolte all’interno dei lavori del Comitato Ad Hoc (Ad Hoc Committee), a New York, organismo incaricato di definire la prima Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
Tra i suoi compiti principali rientrava in particolare quello di consultarsi con i rappresentanti delle varie associazioni che compongono il Caucus, per riferire poi i vari suggerimenti durante le negoziazioni o prima degli interventi in assemblea plenaria. Anche chi scrive l’ha incontrata un paio di volte per segnalarle le posizioni del nostro Consiglio Nazionale sulla Disabilità.
Gerison è una giovane donna simpatica, dai capelli corvini e dagli occhi grandi e dolci, estremamente impegnata nel campo dei diritti dei minori. Lei stessa, sul proprio biglietto da visita, segnala di svolgere un’attività di consulente internazionale sui diritti dei bambini. Vive a Londra, dove ha lavorato anche a contatto con le associazioni Disability Awareness in Action e Save the Children.
Vi sono dati, Gerison, sulla condizione dei bambini con disabilità nel mondo?
«Purtroppo no. Le statistiche sono molto carenti, e quando ci sono non raccolgono informazioni utili. Personalmente faccio riferimento ad una recente ricerca, sviluppata in quattro nazioni di altrettanti diversi continenti e costruita su una raccolta di dati innovativi. I Paesi interessati sono El Salvador, Romania, Sudafrica e Nepal.
Un primo elemento che emerge da questa ricerca è quello della violenza. Infatti, la violenza su minori con disabilità è molto diffusa, sia perché essi risultano indifesi, sia per questioni legate a superstizioni. In Sudafrica, ad esempio, sono molto presenti gli abusi sessuali, spesso anche all’interno delle stesse famiglie. In alcune aree di questo immenso Paese, infatti, le persone con disabilità sono considerate una sorta di “punizione divina” e allo stesso tempo una potenziale protezione dalle malattie. Una bambina disabile vergine, quindi, viene considerata in alcuni riti religiosi uno strumento di purificazione e di allontanamento degli spiriti maligni».
Nelle zone rurali dell’Argentina, mi raccontava Enrique Sarfati di Disabled Peoples’ International (DPI), gli abusi colpiscono soprattutto le persone con ritardo mentale, spesso coinvolte in “giochi proibiti”. Sei a conoscenza di questa realtà?
«Il campo delle violazioni e degli abusi è vastissimo e quello che riusciamo a conoscere è sicuramente una minima parte di quello che succede. Purtroppo siamo costretti a rilevare che le famiglie sono esse stesse luoghi in cui si sviluppano violenza e omertà».
Come si può intervenire?
«A parte le tradizionali forme di tutela – in aree rurali e tradizionali quella giuridica non ha nemmeno molta efficacia – la possibilità di frequentare una scuola aiuta moltissimo. E aiuta sia a permettere di rilevare la violenza in modo precoce – infatti le insegnanti nei paesi poveri sono come delle “antenne sociali” estremamente capaci – sia per consentire a questi bambini e bambine di aprirsi verso l’esterno. Pensa che nella nostra ricerca abbiamo incontrato un bambino che frequentando la scuola elementare ha esclamato: “è la prima volta che qualcuno mi vuole bene!”.
Ahimè, nei Paesi poveri la possibilità di frequentare la scuola è estremamente limitata per tutti, figuriamoci per i bambini con disabilità. Alla recente riunione dell’Unesco sull’educazione per tutti, basata sull’educazione inclusiva, veniva calcolato che dei circa 120 milioni di bambini che nei Paesi poveri non vanno a scuola, 40 milioni di essi sono bambini con disabilità!».
Ma cosa si sta facendo per promuovere l’educazione per tutti?
«Ancora troppo poco. Alcune esperienze però sono positive. Come quella dell’Uganda, ad esempio, dove il governo ha introdotto una legge che garantisce – per le famiglie numerose – che almeno un figlio con disabilità vada a scuola. In molti Paesi, poi, sono le bambine quelle penalizzate, perché in assenza di risorse si preferisce sostenere gli studi del figlio maschio.
Purtroppo, per molti governi la mancanza di risorse economiche condiziona fortemente la possibilità di offrire un’educazione a tutti e quelli che più di tutti pagano questa situazione sono i bambini che vengono considerati “di valore inferiore”».
Questo fa emergere il tema della povertà: quanto pesa questa condizione sulla qualità della vita dei bambini con disabilità?
«Moltissimo. Per una famiglia povera che vive in questi Paesi avere un figlio con disabilità significa vederlo morire a poco a poco. Infatti, se un bambino può avere un costo in termini di vitto e di vestiario, un bambino con disabilità ha costi aggiuntivi per la salute e la riabilitazione. Laddove, quindi, non vi siano servizi di salute di base, e ancor meno servizi riabilitativi, una famiglia senza risorse economiche vive la sofferenza di non poter fare niente per aiutare il bambino con disabilità a sopravvivere.
A questo va aggiunto il fatto che la povertà è causa ed effetto di disabilità. In Nepal, ad esempio, il maggior numero di incidenti ai minori – che si rivelano causa di disabilità – è dovuto al fuoco. Infatti, l’unica forma di riscaldamento, per queste famiglie povere, è il fuoco che viene acceso al centro della capanna o dell’abitazione in cui vivono, e purtroppo i bambini, che non ne conoscono il pericolo, cadono spesso tra le sue fiamme e subiscono danni permanenti».
Qual è invece la condizione dei bambini con disabilità intellettiva?
«Sono proprio loro i più esclusi e i più soggetti a violenze. Anche qui, però, qualcosa si sta muovendo. Penso ad El Salvador, dove si stanno sviluppando programmi di inclusione grazie ai quali – nelle aree rurali – si costruiscono reti di autoaiuto che coinvolgono i genitori e altri membri delle comunità. In Nepal, poi, sono stati avviati programmi di formazione destinati alle famiglie di bambini con disabilità.
Purtroppo siamo solo all’inizio, e tanti bambini vivono ancora in condizioni terribili».
E la protezione legale? La Convenzione sui Diritti del Fanciullo (Convention on the Rights of the Child, CRC), è efficace in questo senso?
«Qui si tocca un tema molto delicato: un figlio con disabilità produce uno sconvolgimento degli equilibri familiari, in questi Paesi già di per sé molto precari. Spesso accade quindi che il marito abbandoni la moglie, ritenuta la causa della minorazione del figlio. In Sudafrica, ad esempio, gli uomini attribuiscono alle donne tutta la colpa per aver fatto nascere un bambino con disabilità».
Rilevavo in questi giorni – durante un incontro con un’associazione bielorussa di persone con disabilità – che in quel Paese nel 90% delle famiglie in cui nasce un figlio con una malattia o una malformazione ci si separa…
«La posizione di fragilità della donna, sia dal punto di vista della legge che da quello dei ruoli culturali, in molti Paesi pesa in maniera considerevole sulla possibilità di accedere a tutele legali. In tal senso, la Convenzione sui Diritti del Fanciullo non è molto efficace.
In realtà, il cambiamento in questi Paesi – ma anche in un Paese avanzato – avviene in pratica, ma non in teoria. Gli interventi con programmi che investano i diretti interessati sono infatti molto efficaci: vari progetti di advocacy hanno offerto a donne e famiglie la possibilità di crescere nella propria consapevolezza e sostenere attraverso interventi di comunità le famiglie in difficoltà.
Certo, in tal senso è necessario sviluppare un’azione di crescita delle risorse destinate a questi paesi: i Millennium Development Goals (MDG, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio) dovrebbero prestare maggiore attenzione ai minori con disabilità, garantendo servizi sanitari ed educativi nei Paesi che ne sono privi».
Pensi che il testo attuale della Convenzione che stiamo elaborando all’ONU tenga conto di questi problemi?
«Abbiamo chiesto che nella Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità si introducessero sia un articolo specifico sui bambini, sia che si realizzasse un mainstreaming dell’infanzia su tutta la Convenzione stessa.
Allo stato attuale, per le resistenze di vari Paesi – tra cui anche quelle dell’Unione Europea – si sta lavorando solo sul secondo approccio. I temi più controversi sono legati al riconoscimento di un’uguaglianza di trattamento, all’interesse preminente del bambino, al sostegno alla responsabilità dei genitori, alla capacità legale.
Su quest’ultima questione, in particolare, credo che vadano fatti dei passi avanti nel riconoscimento della capacità di autodeterminarsi degli adolescenti. Infatti, ciò accrescerebbe da un lato l’autoprotezione e le capacità individuali, dall’altro svilupperebbe una crescita di sensibilizzazione e di consapevolezza della società nel rispettare i diritti dei bambini e dei bambini con disabilità.
Allo stesso modo, anche la formazione dei genitori è importante per rimuovere pregiudizi e discriminazioni».
Anche il tema degli istituti è serio: nella sola Unione Europea si calcola che vi siano circa 2.500 grandi istituzioni che “segregano” più o meno mezzo milione di persone con disabilità. E per quanto riguarda gli orfanotrofi o gli istituti per minori?
«Questo è un tema molto importante. Superare l’abbandono, che è la prima causa di istituzionalizzazione, è il primo problema da affrontare con le famiglie. Per un bambino con disabilità intellettiva abbandonato, l’istituto è spesso l’unica forma per garantirne la sopravvivenza. Non sempre, però: le istituzioni per minori in Romania, infatti, non sono solo luoghi terribili di segregazione, ma anche luoghi in cui la qualità della vita è molto bassa.
Per questi bambini, nei Paesi poveri, le istituzioni sono le uniche risorse a disposizione, alternative alla morte, e finché non si svilupperanno adeguati programmi di inclusione sociale, questo tema rimarrà all’ordine del giorno.
Le discriminazioni in questo campo sono ancora pesanti: mentre ad un bambino senza famiglia viene riconosciuto il diritto di essere accolto in un’altra, ai bambini con disabilità, spesso, l’unico diritto riconosciuto è di essere segregati in un istituto».
Ho visto che tra i vari altri temi l’International Disability Caucus ha insistito molto sulla dichiarazione al momento della nascita, proposta che è stata fatta propria dalla delegazione italiana…
«In molti paesi poveri i bambini non vengono registrati all’anagrafe e finché ciò non avverrà la loro tutela legale sarà praticamente nulla. Appare essenziale, quindi, garantire l’obbligo di registrazione agli uffici anagrafici, per poter intervenire e permettere una prima presa in carico. Talvolta, però, le resistenze dei governi sono paradossali, come quando alle nostre richieste ci rispondono che non possiamo introdurre tutele legali per i bambini con disabilità che siano superiori a quelle dei bambini senza disabilità. E questo meccanismo si sta ingenerando anche nell’ambito di altre discussioni, legate al diritto allo sport, ad esempio…».
Quali altre difficoltà hai incontrato nelle discussioni all’interno dell’Ad Hoc Committee?
«Purtroppo molte organizzazioni di persone con disabilità non lavorano per i diritti dei bambini con disabilità e quindi non ne conoscono le varie problematiche. Per questo è necessario cercare di far capire a tutti l’importanza fondamentale di sviluppare un adeguato sistema di protezione dei minori.
Altro problema, invece, è quello del riconoscimento di una maggiore autonomia dei bambini: qui le maggiori resistenze vengono infatti dai genitori e dai parenti.
Infine, vi sono le resistenze dei governi: in tal senso promuoverei il Canada e boccerei il Regno Unito. L’insistenza ad esempio con cui si sottolinea che la Convenzione sui Diritti del Fanciullo tutela già i bambini con disabilità a volte irrita: quanti sono infatti i rapporti che includono un’adeguata attenzione verso questi bambini, in sede di monitoraggio della Convenzione?
Troppo spesso, insomma, quando si parla di tutela dei diritti delle persone con disabilità si pensa solo agli adulti, trascurando i bambini».
Quali soluzioni vedi praticabili per questa Convenzione?
«Qualora non si raggiungessero tutti gli obiettivi di mainstreaming delle questioni dell’infanzia in tutti gli articoli e qualora permanessero le resistenze per un articolo specifico, non rimarrebbe che il preambolo.
Non dispero però in una soluzione migliore: nella seconda settimana di discussioni della sesta sessione dell’Ad Hoc Committee abbiamo verificato infatti una maggiore flessibilità da parte dell’Unione Europea. E forse, proprio a livello di Unione, sarebbe opportuno definire una Direttiva Europea sulla protezione dei diritti dei bambini, che non sia però un duplicato della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, ma che introduca nuove tutele e nuovi diritti».
In conclusione, quale ti sembra il segnale da lanciare per un futuro migliore dei bambini con disabilità?
«Senza dubbio non posso non auspicare una maggiore visibilità dei problemi che vivono questi bambini, e allo stesso tempo la diffusione di una visione che rimuova le discriminazioni. Ritengo molto importante che la società superi le paure alle quali collega la nascita e l’esistenza di bambini con disabilità.
In qualche modo, la parola più giusta da usare, e da imparare a usare, è ordinario: la nascita di un figlio con disabilità e la possibilità di curarlo, farlo crescere ed educarlo deve divenire un evento ordinario».
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