Non posso non chiedermi da dove nasca quella ferocia (e insensatezza) che spinge un ragazzo di 24 anni a spappolare l’intestino di un adolescente un po’ in carne, forse troppo distante, nella mente dell’aggressore, da quegli stereotipi longilinei con le cui immagini ogni giorno i mass media ci bombardano. La chiave di volta è, credo, la difficoltà profonda a rapportarsi alla diversità, quale che sia il volto che essa assume.
Nel caso di Vincenzo, a questa incapacità si reagisce con lo scherno, nato dal considerare come inferiore un altro essere umano, da posizionare a un livello basso nella sua gerarchia fatta di esseri umani più dotati. Un ragazzo in carne e quindi, ai suoi occhi, marchiato dalla diversità. Un’inferiorità così palese, per lui, da portarlo a decidere di “umiliare” un ragazzino, Vincenzo (beffa del destino: carnefice e vittima hanno lo stesso nome), più piccolo di lui di ben quattordici anni, nel corpo e nelle emozioni, “colpendolo” (quasi una lapidazione simbolica) con parole offensive e arrivando a passare alle vie di fatto più brutali.
Per sottolineare poi la sua sedicente superiorità, l’aguzzino di Vincenzo chiama a testimone la “sua” comunità: uno dei tre (i complici hanno rispettivamente 25 e 30 anni) tiene fermo il quattordicenne, mentre l’altro filma quello che sta avvenendo. Per lui è uno “scherzo”, per dimostrare la sua superiorità, la sua supremazia, per comprovare che la “diversità”, quale che sia la forma che assume, può essere vituperata, negata, annullata, come storicamente si è sempre fatto, prima con la soppressione a livello fisico e poi con quella sociale (con varie forme di isolamento forzato), come ben ricorda ad esempio il sociologo Claudio Roberti nel suo libro L’uomo a-vitruviano (edito da Aracne nel 2011).
Perché se io sono convinto che è legittimo “stare sopra di te”, perché sono superiore, allora mi sento autorizzato a decidere della tua vita e a farti anche quelli che per me in fondo sono “scherzi”, che mi servono a ribadire la mia supremazia.
Il nucleo del problema non è se Vincenzo pensasse di fare uno scherzo o meno (io credo che lo pensasse, sebbene fosse consapevole che si trattava di uno scherzo “pesante” e perverso, umiliante, e per questo fosse ancora più convinto di farlo), ma è a monte: come si può pensare di decidere della vita di un altro essere umano, facendo il bello e il cattivo tempo, in base a un’idea di gerarchia contorta?
Se ci guardiamo alle spalle, nei secoli, la soppressione fisica e sociale della diversità è stata legittimata e avallata, oggi non è più così. A parole, infatti, c’è una grande tolleranza, anzi di più, una voglia di “inclusione” (termine molto in voga), di integrazione, ma poi da tutte le parti ci vengono prospettate immagini di come dovremmo essere per essere considerati belli, bravi e desiderabili socialmente (il che implica che se non si è così, si ricade nella dinamica della negazione).
Sono le immagini, non le parole, a veicolare il messaggio più persuasivo (con un gran bel peso specifico, dato che questa è a pieno titolo una società dell’immagine), di persone longilinee, perfette fisicamente: è quello il corpo desiderabile – desiderato – legittimato ad esistere.
In questa vicenda, poi, c’è anche un altro aspetto su cui riflettere, un aspetto “inquietante e pericoloso”. Si tratta dell’atteggiamento della famiglia d’origine e del parentado che si sono ostinati a ribadire trattarsi di uno scherzo, uno scherzo eccessivo, certo, perché non ci si è resi conto (non si conoscevano, anzi) delle possibili implicazioni lesive, ma pur sempre scherzo. Uno “scherzo da giovincelli”, di quelli che tengono a capa a pazzià. Anche se in un secondo momento, forse sotto consiglio di avvocati più avveduti, sono stati quegli stessi parenti a sdilinquirsi in scuse e mea culpa. Però, per carità, non si parli di violenza sessuale, quella proprio no! Si è continuato comunque a scusare, a difendere anche di fronte all’evidenza dei fatti, perché gli appartenenti al gruppo, al clan familiare, vanno difesi ad ogni costo. È un cerchio che si stringe, ma che anziché essere ispirato a sentimenti come la fiducia, l’amore e la condivisione – come accade per il cerchio della vita, che è in grado anche di espellere, se necessario – ricordano le dinamiche di un altro cerchio, quello del Ku Klux Klan, un cerchio che bollava i diversi in virtù anche qui di una presunta superiorità (razziale), li ghettizzava e si autoghettizzava (perché anche ritenere di essere i soli che possono occupare una certa posizione significa chiudersi in un ghetto), dando il via libera a varie efferatezze ispirate dalla paura dell’altro da sé.
È quel «familismo amorale» di cui parlò il sociologo Edward C. Benfield, ricordato anche dal citato Claudio Roberti. Un’appartenenza al gruppo gridata con fierezza che pone una paura sopra alle altre: quella che uno degli appartenenti possa essere tacciato di violenza sessuale (per l’efferatezza dell’atto compiuto non ci pensiamo troppo… ormai è accaduto… mica possiamo spararci un colpo in testa, no?), perché violenza sessuale verso un ragazzo vuol dire il pericolo di mettere in dubbio il dogma della mascolinità e del “machismo” del capogruppo.
Un valore, un fatto d’onore sopra ogni cosa, perdendo il quale si rischia di essere relegati, a propria volta, nello status di diversi, di marginali, di “anormali”, perdendo in un colpo non solo la propria “normalità”, ma anche il proprio posto privilegiato nella gerarchia, una posizione dalla quale si può decidere del destino degli altri.
Nei suoi scritti, lo psicanalista e sociologo Erich Fromm dava una spiegazione circa l’origine della spinta distruttiva e dell’istinto che porta a voler provocare l’altrui morte. L’essere umano, secondo Fromm, è un’animale bizzarro e atipico, in quanto dotato di autocoscienza, una forma di consapevolezza di sé che si incarna in un corpo “animale”, creando scissione e paura, con conseguenti tentativi di ritrovare lo stato di unità. C’è chi lo fa cercando di annullare la propria ragione e di regredire a uno stato di non coscienza e chi invece vuole sviluppare la propria consapevolezza attraverso la produttività, che non si estrinseca solo nella capacità manuale di creare nuovi oggetti, ma si nutre anche di altre forme di energia. C’è chi poi è incapace di essere produttivo e non accettando di rimanere allo stato di “passività animale”, nelle retrovie dell’oblio, senza lasciare traccia di sé, decide di trascendere la propria esistenza limitata attraverso la distruttività. Il dare la morte, infatti, darebbe lo stesso senso di superamento del limite del dare la vita.
E tuttavia, mentre la capacità di dare la vita è legata alla presenza di impegno, interesse e amorevolezza, quella di dare la morte ha bisogno solo di un po’ di muscoli per esplicitarsi. Ecco dunque da dove nascerebbe la sopraffazione. «La violenza – spiega Federico Mantile, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta, ex giudice onorario del Tribunale dei Minori di Napoli – è una risposta disadattativa alla vita, attraverso la quale soggetti o ipoevoluti sul piano emotivo-relazionale o abituati alla sopraffazione, intendono superare la propria incapacità di amare la vita».
La violenza, una volta innescata, chiama altra violenza, in un’escalation che non vuole fermarsi se non incontra qualcosa in grado di opporvisi profondamente. Secondo gli esperti, dentro la persona violenta si agita un conflitto che lo dilania, un tarlo mentale che satura ogni spazio. Così la violenza viene messa di nuovo in atto, per cercare di superare la frustrazione. In altre parole, l’azione violenta provoca uno scarico momentaneo della tensione emotiva, ma anziché placarla, ne eccita il meccanismo che si ripete e ancora si ripete.
«Questi soggetti – continua l’esperto – hanno di per sé un disturbo del controllo degli impulsi. L’escalation di violenza ha invece un connotato fortemente sociale, perché scaturisce dall’impunità, che permette loro di poter dare libero sfogo alla loro distruttività, senza doverne subire, nella loro percezione, immediate conseguenze».
Su tutti questi aspetti credo sia necessario interrogarsi, perché non basta addolorarsi, anche se il dolore e il senso dell’assurdo è tanto ed esonda, o reprimere duramente la barbarie. Occorre invece interrogarsi molto seriamente sulle radici di questo male sociale “di vivere e convivere”, per cercare di eliminarlo. E bisogna farlo per cercare di creare nuovi ponti tra le persone, un nuovo senso di condivisione anche del dolore e delle difficoltà, un legame di unione che non sia nella dinamica “noi-loro”. Bisogna farlo, in sostanza, per riuscire a curare il male “di convivere” sin dalle e nelle sue radici, ridefinendo le relazioni con l’altro da sé e creando, così, un nuovo senso di comunità.
Ben volentieri, in conclusione, cedo la parola a Simona Ilardo, psicologa clinica, che attualmente lavora con ragazzi disabili e in particolare con disabilità sensoriali.
«Se dovessimo riassumere la vera causa della ferocia scatenatasi contro Vincenzo – afferma – potremmo dire che la sua colpa è stata quella di essere se stesso. La colpa imputatagli dal gruppo degli aggressori, invece, è quella di essere “diverso”, perché non rispondente ai canoni estetici imperanti. Il presupposto di questa dinamica relazionale distorta è che quando non si accetta se stessi, non si può accettare neanche l’altro da sé. Le responsabilità viaggiano su due direttrici: manca un’educazione all’affettività e una reale apertura all’ascolto. I giovani sono abbandonati a loro stessi e la famiglia, in molti casi, non si dimostra più un’istituzione in grado di educare e insegnare i valori davvero importanti, con pesanti ricadute sociali. Occorre dunque un intervento reticolare, con mezzi e risorse. È importante prendersi un momento per riflettere, interrogandosi su quanto riusciamo davvero a gestire i conflitti e i problemi che riguardano la vita dei nostri figli. Ecco però farsi avanti il solito annoso problema: l’importanza dell’intangibile, soprattutto in un periodo di crisi, stenta a palesarsi, ad essere compresa. La necessità di coltivare il benessere psicologico potrebbe apparire superflua o quanto meno impraticabile, per cause di forza maggiore. Quindi i soldi non ci sono, ma se si investe non lo si fa in cultura».
«In un panorama di questo tipo – aggiunge Ilardo – la diversità non viene percepita come una risorsa, ma come uno scarto dalla norma, che va colmato, abbattuto. Se sei grasso, sei diverso, sei poco desiderabile socialmente e vieni preso di mira. Non ci viene insegnato ad a esprimere la nostra personalità, il nostro vero io. Bisogna omologarsi e chi non lo fa può essere discriminato. Il mio parere è che tutto nasca da una mancanza di libertà, innanzitutto di espressione. I social network, ad esempio, ci danno la falsa credenza di poterci esprimere liberamente e che la nostra voce, le nostre idee, possano arrivare ovunque. In realtà quello che è cresciuto è soprattutto il controllo e il condizionamento sulle nostre vite (basti pensare a quanto i social network facciano man bassa delle nostre preferenze, dei nostri gusti e di tutte le informazioni che ci riguardano). Se io sono costretto ad omologarmi, e non posso esprimermi liberamente, nel caso abbia una personalità debole, mi reprimo e cerco in tutti i modi di reprimere anche te, proiettando su di te la mia frustrazione e l’invidia per il fatto che tu – esprimendo realmente te stesso – stai riuscendo a sfuggire al sistema e anche a me che, omologandomi, ne faccio parte. Questo scatena la mia rabbia e il mio desiderio di sopraffazione su di te».
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