Ci sono immagini che ci colpiscono più di altre e che per questo si fissano nella nostra memoria in maniera indelebile. Io, disabile, personalmente sono rimasto scioccato dall’immagine di una carrozzina elettrica vuota vista in televisione e credo che me la porterò dietro per molto tempo, insieme alla pena per ciò che essa rappresenta.
La carrozzina era quella di Felicia Castaniere, 50 anni quasi compiuti (non gliene hanno lasciato il tempo) e spesi cercando con fatica di rendere la propria vita e quella degli altri un po’ meno in salita.
La morte di Felicia, disabile di Casandrino in provincia di Napoli, inseguita fuori dall’ufficio postale dove aveva ritirato la pensione e parte dei suoi risparmi fino al portone nel quale aveva cercato riparo e poi picchiata e derubata con brutalità, al punto da provocarle un infarto che l’ha uccisa, ha certo colpito molto anche l’opinione pubblica. Ma ferisce in modo particolare noi, persone come lei, disabili con limitazioni motorie gravi, che abbiamo fatto di ausili come la carrozzina elettrica lo strumento e la bandiera che ci consentono di riconquistare quote importanti di autonomia.
Per quelli come me, come noi, la carrozzina elettrica ha rappresentato uno strumento di liberazione fantastico: la possibilità di tornare a circolare da soli in casa e fuori, soprattutto fuori, supplendo così alla poca forza delle nostre braccia che, sommata all’immobilità delle nostre gambe, non ci permette di spingere autonomamente una carrozzina tradizionale, quella “a mano”.
Vedere questo strumento, che ormai a noi che lo usiamo quotidianamente (io da quasi quindici anni) è così familiare, del quale conosciamo ogni minimo particolare, ogni pregio e ogni difetto, vederlo così “vuoto”, non completato dall’essenziale figura della sua padrona, la persona della quale quel mezzo finisce per diventare un’autentica estensione; e vederlo poi recuperato, sballottato con imperizia e alla fine issato su di un camion per portarlo via… ci comunica un senso di angoscia, di impotenza, di rabbia e infine, come ho scritto all’inizio, di pena.
Perché quella carrozzina elettrica vuota diventa il simbolo della nostra lotta di tutti i giorni per colmare i nostri molteplici handicap, per riprenderci con fatica e con dolore – ma anche con dignità – quello che la vita ci ha negato. Una rincorsa che non vorremmo mai vedere vanificata, ma alla quale basta tanto poco per interrompersi e allora ecco, è come se su quel camion stessero portando via una parte di noi, è come se anche a noi avessero portato via un pezzetto di vita, quella vita che hanno strappato a Felicia.
Sì, lo so: questo è un mondo che “non ha più valori”, dove basta uno sguardo sbagliato per finire morti ammazzati, dove anche essere bambini, anziani, donne incinte non può mettere al riparo da una fine spietata e violenta… e quindi perché proprio il disabile dovrebbe essere risparmiato? Sarà, ma di questa uguaglianza, di questa conquista avremmo fatto volentieri a meno, noi che più di tutti rispettiamo la vita, perchè sappiamo quanto ci costa costruircela e ricostruircela ogni giorno.
Era stimata, Felicia, nel suo quartiere. Una persona che, oltre a non fare pesare su nessuno le proprie difficoltà, cercava di mettere la propria esperienza al servizio degli altri, nell’associazione della quale era animatrice, e nei quotidiani rapporti con gli altri. Come molti di noi.
Qualcuno sostiene che le persone con disabilità hanno una marcia in più. Vedendo tanti amici e conoscenti con handicap che sono stati capaci di ritagliarsi esistenze di tutto rilievo, partendo da condizioni di partenza oggettivamente difficili e dimostrando anche più capacità e sagacia della media degli uomini, potremmo sposare questa tesi. Ma se alcuni di noi sono dotati di una marcia in più, sempre più spesso il resto del mondo sembra dimostrare di avere molte marce in meno…
Pochi giorni dopo il tragico fatto di cronaca che ha visto coinvolta Felicia Castaniere, un’altra disabile è balzata in prima pagina sui mezzi di comunicazione, per un episodio infinitamente meno drammatico, ma ugualmente esemplare: a Imperia una giovane tetraplegica – che anche in questo caso per spostarsi utilizzava un mezzo elettrico (per la precisione uno scooter, anche se la maggior parte dei giornalisti le identifica tutte come “carrozzelle a motore”…) – è stata allontanata da un supermercato dall’integerrimo direttore, che le contestava di essere alla guida di un mezzo non omologato… Omologato per cosa, poi? Per fare la spesa?
Ecco, anche nelle piccole cose, il tentativo di “disarcionare” una persona dal mezzo che le consente di integrarsi e di colmare un handicap, in questo caso quello solo apparentemente banale di poter fare shopping come tutte le altre persone…
Ma la vicenda ha un risvolto che deve fare riflettere: prontamente riammessa nel supermercato dall’intervento dei carabinieri, chiamati da un’amica, la ragazza ha declinato l’invito a sporgere querela: «Per una cosa così, non ne vale la pena…», ha detto e il suo sguardo non era quello di chi teme di non ottenere giustizia esercitando un sacrosanto diritto, ma proprio quello di sincero compatimento che meritava quel direttore. Come dire: basta e avanza la figuraccia che ha fatto…
Io sono convinto che anche Felicia, se avesse potuto, più che cercare di fare arrestare le due belve che ne hanno provocato la morte, avrebbe cercato di parlare loro, di convincerli di quanto sia più gratificante e apportatore di orgoglio guadagnarsi da vivere onestamente, rispettando la vita, propria e degli altri.
Probabilmente quei due non l’avrebbero ascoltata, ma lei ci avrebbe provato lo stesso. Perché pare che noi disabili siamo rimasti tra i pochi a conservare il germe di quel rarissimo virus chiamato “umanità”. Anche questo mi comunica quella carrozzina elettrica vuota. E se è davvero così, se è proprio la sofferenza del quotidiano confronto con la malattia a conservarci umani, questa è davvero l’unica volta che ringrazio di cuore il mio stramaledetto handicap.
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