La prima idea di scrivere qualcosa sulla disabilità nasce qualche anno fa. Era un momento di forte crisi personale, sentivo che il mio handicap mi pesava tantissimo, nelle relazioni con gli altri. Sentivo nella mia quotidianità tutta quella “fatica di essere disabili” di cui parlo nel secondo capitolo del libro, una fatica opprimente, senza soluzione.
Avevo il bisogno di raccontare quella fatica, gli sforzi che avevo fatto per anni per ricostruire me stesso dopo un incidente stradale in cui ho perso un braccio e una gamba. Per fortuna non ho poi scritto nulla. Sarebbe stato un racconto autobiografico, di nessun interesse per gli altri. Non mi interessa il racconto di sé. Raccontare, qualsiasi cosa essa sia, ha secondo me un senso solo se si suscitano i sentimenti, i pensieri e le riflessioni altrui.
Alle questioni più strettamente personali si è poi aggiunto un percorso intellettuale e di ricerca. Ero laureato in storia ormai da anni, ma non avevo mai pensato che la disabilità potesse diventare un tema di analisi per le scienze sociali.
Ho poi cominciato a leggere alcuni testi, a partire da Stigma di Erving Goffman che, per caso, ho trovato sul bancone di una libreria. Credo che chiunque si interessi di disabilità debba leggere questo libro. Da lì le mie letture si sono approfondite, sono andato alla ricerca di altri testi e di articoli. Ho soddisfatto i miei interessi soprattutto in Francia, dove l’attenzione delle scienze sociali per questo tema è molto più approfondita.
Con La terza nazione del mondo mi sembra di aver fatto convergere la mia dimensione personale di disabile con il percorso di ricerca. Ho cercato di costruire un testo che fosse il più accessibile possibile poiché credo che una “cultura della disabilità” debba poter essere fruibile al maggior numero di persone. Nello stesso tempo ho voluto porre la questione dell’handicap come problema sociale a tutto tondo, ma anche come problema esistenziale che coinvolge tutti, e non solo i disabili.
Ho trovato il punto di raccordo tra queste diverse dimensioni nello sguardo che abbiamo tutti, normali e disabili, sull’handicap. Uno dei passaggi del libro a cui sono maggiormente legato è il seguente: «Da anni studiosi di scienze sociali e oggi anche la Convenzione dell’ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità sostengono che la causa iniziale dell’emarginazione di chi è disabile non è l’handicap, la menomazione in quanto tale, ma lo sguardo che posiamo, a livello individuale e collettivo, sulla disabilità. A interporsi tra il disabile e la vita non c’è l’handicap, ma lo sguardo su di esso» (pag. 14).
Il mio libro parte da qui. Ho voluto fare un percorso per comprendere le origini di questo sguardo, in termini psicologici e culturali. Ma non considero questo approccio “culturale” all’handicap un’operazione intellettuale fine a se stessa: il modo attraverso cui guardiamo la disabilità ha ricadute concrete nella realtà quotidiana delle persone disabili. Quel considerare i disabili “esseri inferiori” è un pensiero terribile che esprimiamo come singoli e come collettività; è quello sguardo che nasce dalla paura che suscita in noi la semplice vista dell’handicap e che si trasforma in tutti quei comportamenti e quegli sguardi che stigmatizzano ed escludono le persone disabili.
E ciascun disabile sa quanto questo sguardo abbia bloccato sul nascere la possibilità di stringere relazioni, di comunicare con gli altri o di esprimere se stessi.
*Testo già apparso nel sito della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità) e qui ripreso per gentile concessione.
**Ricercatore nel campo delle scienze sociali e persona con disabilità. Autore di La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà (Milano, Feltrinelli, 2009).