Possono migliorare la situazione di persone con disabilità visive anche gravi, permettere a chi è affetto da rari tumori di vivere in buona salute per molti anni e consentire a persone che soffrono dalla nascita di gravi malattie rare di avere una vita simile a quella degli altri. Possono avere nomi differenti, ma ricadono tutti nella stessa famiglia: quella dei cosiddetti “farmaci orfani”, come cioè vengono definiti in genere quei prodotti medicinali destinati alla diagnosi, alla prevenzione o alla cura di malattie o disturbi rari, detti “orfani” per il semplice fatto che l’industria farmaceutica, in condizioni normali di mercato, è poco interessata a produrre e a commercializzare farmaci destinati solamente a un ristretto numero di pazienti affetti da patologie rare o molto rare. Ma davvero non c’è ricerca e non c’è interesse delle aziende a portare tali prodotti sul mercato? E l’Italia come partecipa allo sviluppo di queste nuove terapie?
A queste e ad altre domande si è cercato di dare una risposta a Roma, nel corso del primo Orphan Drug Day, sul tema Farmaci orfani, ricerca & sviluppo “Made in Italy”: il punto su progressi ed ostacoli, organizzato dall’OMAR (Osservatorio Malattie Rare), con il contributo non condizionato dei gruppi Alexion, Biomarin, Celgene, Genzyme, Orphan Europe e Shire [se ne legga anche la presentazione su queste stesse pagine, N.d.R.].
«I dati ci dicono – ha spiegato la senatrice Laura Bianconi, coordinatrice dell’evento – che da quando la designazione di “farmaci orfani” è stata introdotta nel 1983 negli Stati Uniti (Orphan Drug Act) e poi anche in Europa (Regolamento CE n. 141/2000 e Regolamento CE n. 847/2000), lo status di “orfano” è stato concesso a migliaia di molecole e terapie. In Europa, ad esempio, le designazioni orfane sono state ben 1.163. C’è dunque ricerca, che però ha tempi particolarmente lunghi e peculiari difficoltà: infatti, sulle citate 1.163 molecole che hanno ottenuto dall’EMA (European Medicines Agency) lo status di “orfano”, solo 93 hanno ad oggi avuto l’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC). L’altro 92% è ancora “per strada”, oppure ha tradito le promesse fallendo».
«In questo settore – ha aggiunto Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore dell’OMAR – l’Italia è molto attiva. Infatti, il 20 % della sperimentazione clinica nel nostro Paese è effettuata proprio con farmaci orfani. Gli ultimi dati dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), risalenti allo scorso anno, parlano di ben 117 sperimentazioni cliniche aperte, l’80% circa delle quali è arrivata alla fase II o alla fase III, ovvero le fasi della sperimentazioni più vicine al “letto del paziente”. Non sono però tutte rose e fiori. Se pure su 93 farmaci con l’AIC il 78% è già a disposizione dei pazienti (dopo avere passato tutto il lungo percorso di prezzo e rimborso con AIFA e l’inserimento nei Prontuari Regionali), ce n’è un 22% che sta ancora aspettando la fine di questo iter ed è difficile sostenere che possa essere un problema di costi: stando ai dati del 2013, l’impatto dell’intera classe dei farmaci orfani ha costituito solo il 4,65% dell’intera spesa farmaceutica».
«Quella che probabilmente manca – ha sottolineato Emilio Clementi dell’Università di Milano, direttore dell’Unità Operativa di Farmacologia Clinica dell’Azienda Ospedaliera Sacco di Milano, che in occasione dell’incontro di Roma ha tenuto la Lectio Magistralis intitolata Peculiarità della ricerca e sviluppo dei farmaci orfani – è una cultura diffusa intorno a questo tema, e soprattutto uno sviluppo concreto di partnership tra accademia, industria, fondazioni di ricerca e associazioni di pazienti che siano strutturate e durature. Qualcosa è stato fatto, e cito ad esempio l’accordo tra Fondazione Telethon, IRCCS San Raffaele e GlaxoSmithKline, ma non è sufficiente. Bisogna stimolare questo tipo di collaborazioni perché realmente possono facilitare la ricerca di bersagli terapeuticamente validi, accelerare e affinare sia il disegno di farmaci innovativi che il processo clinico necessario al loro utilizzo sui pazienti».
Nel corso dell’evento romano sono stati anche presentati alcuni esempi di ricerche italiana attraverso le esperienze di altrettante aziende (Chiesi Farmaceutici, Celgene, Shire e Dompè), ciò che ha fornito l’occasione per una tavola rotonda, durante la quale le Istituzioni presenti hanno interrogato sia le aziende stesse che i ricercatori sulle modalità con cui la “politica” può essere di supporto a questo settore, generando un vantaggio per i pazienti, per la ricerca medico scientifica e per l’intera economia del Paese.
Interessanti le tre nuove ipotesi di lavoro emerse da tale dibattito, la prima delle quali riguardante la standardizzazione dei costi e la riduzione dei tempi legati al lavoro dei Comitati Etici. «Nella ricerca clinica – ha spiegato a tal proposito Gianni De Crescenzo, direttore medico di Celgene – per rendere ancora più attrattivo un Paese che conta grandi individualità ed eccellenti centri di ricerca, possiamo e dobbiamo lavorare sui costi e sui tempi per le autorizzazioni. Oggi un’azienda che voglia fare ricerca deve, tra le spese, sia versare una quota all’AIFA, sia al Comitato Etico Coordinatore, sia ai singoli Comitati Etici, per la revisione dei protocolli di studio. Sarebbe pertanto auspicabile un tariffario delle prestazioni comune a tutti i centri di ricerca clinica, in modo tale da ridurre i tempi di negoziazione dei contratti. I tempi stessi, poi, si potrebbero ridurre anche prevedendo che la valutazione amministrativa sia contestuale all’approvazione del Comitato Etico. C’è infine il problema di un’omogeneità, di una standardizzazione delle procedure dei Comitati Etici, delle documentazioni da questi richieste, oltreché di un’uniformità dei moduli dei Consensi Informati».
Come hanno convenuto tutte le aziende presenti, si tratta di richieste a costo zero, per le strutture sanitarie, che tuttavia permetterebbero una drastica riduzione dei tempi di approvazione delle ricerche cliniche.
A parlare poi dei cosiddetti “Programmi Name Patient”, è stato Marcello Allegretti, direttore scientifico di Dompè, che ha dichiarato: «Sul piano dell’accesso alle terapie, in fase di sperimentazione, laddove l’arruolamento di un paziente negli studi clinici in corso non sia possibile, sarebbe necessaria una valutazione specifica del rischio/beneficio, per poterne valutare comunque l’accesso al trattamento. Casi di questo tipo dovrebbero essere considerati con grande attenzione dalle Autorità, prima di tutto a tutela dell’interesse del paziente, ma anche in considerazione dell’enorme rilevanza che, nel campo delle patologie rare, può avere il dato clinico anche del singolo paziente, se raccolto nell’àmbito di una sperimentazione controllata. In questi casi la richiesta di trattamento può essere ricondotta al cosiddetto sistema Named Patient Basis, secondo cui “i medici possono anche ottenere promettenti medicine per i loro pazienti richiedendone la fornitura all’Azienda produttrice, per poterli usare per il trattamento dei propri pazienti sotto la propria responsabilità”». «In questo caso – ha concluso Allegretti – la proposta sarebbe quella di istituire un processo di valutazione formale da parte dell’Ente Regolatorio delle richieste di accesso named patient basis, almeno limitatamente ai casi di pazienti affetti da patologie rare».
Infine, è emerso anche il tema dell’Hospital Exemption (“esenzione ospedaliera”), sollevato da Andrea Chiesi dell’omonima azienda. «Per quanto attiene alla sperimentazione di terapie avanzate – ha sottolineato – e in particolare per le patologie rare, la compresenza di Hospital Exemption, sviluppo clinico regolatorio e produzione industriale crea una serie di problemi. L’esperienza clinica in Hospital Exemption, infatti, non viene raccolta in studi formalizzati con dati interpretabili, lasciando lacune informative potenzialmente pericolose e impedendo la transizione verso uno sviluppo metodologicamente corretto. I sistemi di farmacovigilanza sono incerti e non sempre consentono la gestione del profilo di sicurezza e attività dei nuovi farmaci. Inoltre, l’incertezza dell’ambiente nel lungo periodo scoraggia ulteriori investimenti nel settore, con possibili pesanti conseguenze per i pazienti che potrebbero trovarsi nella situazione di non vedere nuove terapie possibili raggiungere il mercato».
È stata quindi avanzata la proposta di ricercare una più chiara gestione a livello europeo, che si potrebbe raggiungere attraverso una definizione degli àmbiti presenti e futuri dei vari approcci possibili, impedendo a priori la commistione e la compresenza di approcci tanto differenti.
A tal proposito, i partecipanti all’incontro hanno convenuto sul fatto che il recente Decreto Ministeriale sulle terapie avanzate [“Disposizioni in materia di medicinali per terapie avanzate preparati su base non ripetitiva”, N.d.R.] può porsi come un importante contributo di chiarezza, divulgabile come buona prassi anche in altri Paesi. (Stefania Collet)
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