Coincidenze, intersezioni del destino che a volte fanno nascere riflessioni estemporanee, una delle quali mi porta a ragionare sul “paradosso delle protesi”, come lo ha definito Alberto Arenghi, professore universitario (neo associato) di Brescia.
Nel sito di «Io Donna», il magazine del «Corriere della Sera», è stato recentemente pubblicato un video che racconta di un bimbo nato con malformazione a un arto che ha ricevuto una mano protesica, molto semplice ma funzionale e a basso costo, creata grazie a una stampante 3D.
Quella mano diventa, nella fantasia del bimbo, qualcosa che lo trasforma in un “supereroe dai poteri amplificati”. Una notizia che si abbina perfettamente con alcuni fogli che avevo lasciato sul comodino di casa e che ho ripreso in mano qualche giorno fa, con un articolo a firma di Vittorio Marchis, ordinario di Storia della Scienza e delle Tecniche presso il Politecnico di Torino, dal titolo Da Capitan Uncino ai Cyborg in cui racconta l’evoluzione delle protesi nel corso dei secoli.
Pensiamo ad esempio al paradosso che vede un albero di mele e un frutto da raggiungere. Una persona prende la scala, sale e lo raccoglie. Una persona con disabilità motoria aspetta che cada o che qualcuno la raccolga per lui. Una persona con una protesi, in un futuro prossimo, potrebbe utilizzare l’arto cibernetico per raggiungere la mela senza doversi spostare da dove si trova.
È un’idea che ricorda da vicino i telefilm della seconda metà degli Anni Settanta (inizio Anni Ottanta in Italia), l’Uomo da sei milioni di dollari e La donna bionica, dove il mondo era quasi ribaltato, dove un “disAbile” diventava “superAbile” grazie alla robotica. Questo pensiero, però, ha attraversato i secoli: quel paradosso, infatti, descrive abbastanza bene il percorso che ha separato le persone con protesi dalle persone con disabilità. E la differente accoglienza da parte della società che le prime hanno rispetto alle seconde.
La protesi, prima di essere una arto, è un macchinario esterno al corpo (da questo essere un pezzo aggiuntivo derivano alcune forme di rigetto psicologico), capace di far recuperare totalmente o in parte alcune funzionalità. E può essere così ben studiato per una funzione, da superare l’arto in carne e ossa. Basti ricordare le polemiche che seguirono alla decisione di Oscar Pistorius di gareggiare con due “lame” contro atleti “normodotati”. Subito si discusse dei vantaggi che queste protesi potevano portare al corridore sudafricano.
«La macchina- scriveva Marchis nell’articolo citato – sin dai tempi più antichi è l’“artifizio per andare contro natura”, è astuzia contro le sue leggi». Uno strumento per amplificare le capacità umane e per superare i limiti degli uomini. E lo è stato fin dall’antichità. Persino nella mitologia non mancano dèi con qualche amputazione. Ma se a Efesto, nato zoppo, è riservato il lancio dall’Olimpo, quasi fosse una “Rupe Tarpea divina”, il dio azteco Tezcatlipōca, privato di un piede, assurge a “dio della creazione”.
Il diverso trattamento tra persone con disabilità e persone amputate forse è figlio di una società maschilista e belligerante in cui un disabile dalla nascita poteva essere considerato inutile, mentre un eroe che tornava da una guerra con un arto in meno era spesso un eroe da onorare. Un’idea, questa, che si è persa nel tempo, toccando il punto più basso con i tanti amputati delle guerre mondiali e di quelle più moderne, dalla Corea fino all’Afghanistan. Per poi tornare in auge con il potenziamento tecnologico delle protesi.
Oggi ci sono persone che si fanno impiantare sottopelle chip – che possono essere considerati protesi, non essendo di natura umana – per avere poteri “sovraumani” o più semplicemente per controllare gli apparecchi elettronici con impulsi elettrici.
La presente riflessione è già apparsa in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Il paradosso, storico, delle protesi” e viene qui ripresa – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.
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