Trascorsa speriamo per sempre la stagione della discriminazione assoluta, di quella “per principio” (o “per maledizione”), la discriminazione di oggi – e quindi la spesso conseguente segregazione – si attua attraverso formule più insidiose, ma ugualmente gravide di risultati negativi per le persone con disabilità. In questo senso crediamo che una moderna formulazione del concetto di discriminazione possa essere «non poter fare quello che fanno gli altri, come lo fanno gli altri».
Servirebbe innanzitutto una maggiore apertura culturale alle necessità delle persone disabili, un’apertura culturale che dovrebbe permeare ogni settore della società, vedendo la disabilità come possibile condizione “normale” della vita, come componente stessa della natura umana, come un lato del nostro essere che si manifesta maggiormente in alcune persone, ma che potenzialmente – e non solo potenzialmente – appartiene a tutti.
Così come fortunatamente sta prendendo cittadinanza tra gli architetti il “disegno per tutti”, dovrebbe diventare un’idea corrente tra gli amministratori pubblici il “pensare per tutti”, partendo da quei concetti che permettono la non discriminazione della persona con disabilità.
Ognuno di noi o dei nostri ragazzi dovrebbe poter salire su qualsiasi autobus o treno o taxi, accedere a qualsiasi servizio pubblico, entrare in ogni bar, banca, ufficio postale e naturalmente servirsene ed essere servito come tutti, senza dover ricorre a “corsie del pregiudizio” che testimoniano l’esistenza di percorsi speciali per chi non rientra nella norma.
E quante volte la Sanità non è discriminante verso di noi? Quanti “pronto soccorso” sono attrezzati per ricevere adeguatamente le persone con disabilità? In quanti di essi è possibile ricevere un trattamento che non consideri la disabilità una – o anzi la – malattia e non trascuri o sottovaluti la reale patologia del momento?
E le forme sociali adatte a compensare le disabilità più gravi – come il voto domiciliare – non dovrebbero essere svincolate da ogni aspetto burocratico e trasformarsi in un semplice servizio dovuto, proposto e quindi reso quasi automaticamente?
Una sottile, ma terribile forma di discriminazione è poi quella legata all’età: in età scolare, fortunatamente, si ha diritto a molte cose: l’insegnante di sostegno, l’assistente alla comunicazione, l’assistente all’autonomia, i possibili programmi differenziati (pur non essendo quasi mai automatica e indolore la fruizione di questi diritti). Passata però quell’età (felice!?), finisce quasi tutto e la discriminazione verso la persona con disabilità “adulta” cresce con il passare degli anni. Forse, beffardamente, diminuisce in età avanzata, ma solo perché a quel punto si è ormai “quasi tutti disabili”!
Discriminazione è la mancanza – quando sarebbe possibile svolgerlo – di un lavoro e, tra i lavori possibili, quella di un lavoro reale e utile.
E di tante altre forme di sottile discriminazione si potrebbe parlare, tutte causa di una forte emarginazione sociale. Una per tutte: la mancanza di un adeguato servizio di assistenza domiciliare che permetta alle persone con disabilità anche grave di continuare a vivere al proprio domicilio e di non dover essere “ospitate” in strutture residenziali. Non è forse la perdita della libertà la peggior forma di discriminazione?
*Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).
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