Staff Benda Bilili: guardare oltre le apparenze

di Yann Plougastel*
Sono poveri e disabili. Di giorno vivono di espedienti e di notte suonano per le strade di Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo. Dieci anni fa hanno creato lo Staff Benda Bilili e oggi cominciano a conoscere il successo. Proponiamo ai lettori un ampio reportage dal cuore dell'Africa, in una metropoli di otto milioni di abitanti, la metà dei quali vive sotto la soglia di povertà e dove 50.000 bambini abbandonati vivono per le strade

Il gruppo musicale nato nel 1999 a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del CongoTutto lo staff era lì. Quelli che scorrazzano per la città su improbabili motorini Peugeot. Quelli che vanno in giro con delle Yamaha inverosimili tra locali malfamati e rivenditori di sigarette e Coca-Cola. Quelli che vivono per strada e hanno una donna in ogni quartiere, e quelli che non mangiano, ma sono vestiti da gran signori. C’era Ricky col suo berretto di cuoio nero bollito. Koko che sistemava la sua chitarra senza dire niente. Djunana che si divertiva come al solito. E Théo, nascosto dietro un paio di occhiali neri, che canticchiava Bob Marley. A un certo punto Ricky ha urlato: «Staff Benda Bilili!» e il resto della gang ha alzato il pugno gridando: «Très, très fort!» (“forte, fortissimo!”). È come un grido di guerra che somiglia a uno scongiuro e a una ventata di sarcasmo sulla vita di tutti i giorni. Il concerto è cominciato così. L’impianto di amplificazione malridotto sfondava i timpani. Poi rumba e blues, tutta la notte.
Negli anni Settanta, ai tempi del suo massimo splendore, quando qui si creava tutta la musica africana, Kinshasa [8 milioni di abitanti, capitale della Repubblica Democratica del Congo, N.d.R.] si trasformava di colpo in kin-kiesse, kin-la-joie, una «roccaforte del buonumore costruita su una notte di risate», come racconta lo scrittore congolese Vincent Lombume Kalimasi. Oggi la città ha detto addio ai tempi delle danze e delle melodie infinite ed è diventata kin-kiadi, kin-la-tristesse, la “città spazzatura”.
Eravamo a N’Djili, uno dei quartieri più lontani dal centro e tra i più turbolenti della capitale della Repubblica Democratica del Congo. Come ogni domenica sera, lo Staff faceva le prove nel cortile polveroso della Terrasse Gentils-Gentils, una nganda, cioè una sorta di piccolo bistrot all’aperto con tre sedie e due tavoli, dove gli abitanti della città bevono litri di birra Primus.
L’articolo 15 della Costituzione Congolese è diventato il motto di una metropoli sull’orlo del baratro: “Arrangiarsi”.
I membri dello Staff Benda Bilili sono maestri nell’arte di arrangiarsi. Dei “Leonardo da Vinci” della sopravvivenza, dei “Picasso” della vita di espedienti. Con i corpi disarticolati dalla polio, gli arti atrofizzati dalla malattia, vivono per strada da tanto di quel tempo che ormai padroneggiano tutti i codici di questa enorme “corte dei miracoli” di otto milioni di abitanti, un’immensa architettura fatta di marciume e fatiscenza.

Jam con lo Staff
Un'altra immagine dello Staff Benda BililiDurante il giorno i venditori di sigarette di contrabbando filano zigzagando negli ingorghi, tra vigli disorientati che tentano di dirigere il traffico e operai cinesi che fanno di tutto per riparare le strade dissestate dalle piogge e da oltre quarant’anni di pessima amministrazione. Di notte, invece, i mendicanti a bordo di ciclomotori addobbati come degli easy rider dei tropici, chiedono l’elemosina davanti ai ristoranti per bianchi, sempre con la stessa insistenza. Nel tempo che resta loro sono musicisti. E per di più molto bravi.
Un anno fa, Damon Albarn, il leader dei Blur, uno dei musicisti più creativi del rock anglosassone, ha potuto sperimentare il loro talento di persona. Era in viaggio nella Repubblica Democratica del Congo con Amadou, il chitarrista e cantante del duo maliano Amadou & Mariam, e con i musicisti dei Massive Attack per la sua associazione Africa Express, nata allo scopo di promuovere la musica africana nel mondo anglosassone.
Una sera ha organizzato una jam-session con lo Staff. «È stata una serata meravigliosa, che riassumeva perfettamente lo spirito di Africa Express», ha scritto un giornalista dell’«Independent», che aveva assistito all’incontro. «Alcuni tra i musicisti più apprezzati in Africa e in Occidente suonavano con un’orchestra composta da paraplegici senza fissa dimora. Improvvisata e barcollante, la loro musica era dolorosamente bella».
A Kinshasa in ogni casa c’è un musicista. «Qui la realtà è sonora. Kinshasa non si vede, si ascolta», mi ha spiegato una sera Ricky, il capo dello Staff. Ha 57 anni, in un Paese dove la speranza di vita per gli uomini è di 47. Ha un torace da lottatore, uno sguardo da leader e una voce da seduttore. La sua filosofia è: «Sapere quello che significa parlare». Ha sempre vissuto a Kinshasa, ma grazie a suo padre, un soldato originario della città di Kisangani, conosce i ritmi dell’alto Congo. A cinque anni, quando si è ammalato di polio, ha esitato, ma solo per poco. Poi ha deciso che «anche se la vita è dura, non bisogna gettare la spugna, bisogna combattere». La strada è stata la sua scuola: per sfamare la madre e la sua famiglia numerosa, ha imparato a cucire, ad aggiustare, a fare il meccanico. E a fare affari meno ortodossi, come contrabbandare alcol e sigarette introno al Beach, il battello che collega Kinshasa a Brazzaville, sull’altra sponda del fiume Congo, dove ci sono meno tasse e le cose costano meno.
Ricky, il «veterano» dello Staff Benda BililiIl generale Mobutu Sese Seko chiudeva gli occhi su questo traffico illegale. Mobutu governò con il pugno di ferro per più di trent’anni (tra il 1965 e il 1997) e nel 1971 ribattezzò il Paese Zaire. Fu lui a incoraggiare i congolesi che erano stati colpiti duramente dalla vita a creare la Piattaforma, una sorta di sindacato incaricato del reinserimento dei disabili al lavoro e li dispensò dal pagamento delle tasse.
Ricky – che è diventato presidente di una delle associazioni che fanno capo alla Piattaforma – al Beach ha incontrato Koko, un’altra forza della natura. 52 anni, sette figli, di professione carpentiere. Ha due spalle da scaricatore dei mercati generali, le braccia larghe come lo Zambesi, le mani grandi come badili che però, lungo un manico di chitarra, si muovono con un’eleganza da gentleman. Perché Koko, quando finisce di partecipare ai campionati di braccio di ferro e di trasformare la sua Peugeot blu in un’opera d’arte, è un grande chitarrista. Leggero, melodico, ispirato, è lui il compositore dello Staff.

Oltre le apparenze
Un po’ papponi e un po’ musicisti, Ricky e Koko non potevano non andare d’accordo. Una decina d’anni fa hanno fondato lo Staff Benda Bilili che in lingala significa “guarda oltre le apparenze”. Ma non hanno interrotto i loro traffici.
Poi è arrivato Théo, il secondo cantante, fan di James Brown e Bob Marley. Di buona famiglia, Théo è finito sul lastrico con la caduta di Mobutu nel ’97. Si è trasformato allora in un “mago dell’elettricità”, capace di distribuire la corrente in una città dove non c’è. Uno dopo l’altro, è stata la volta di Djunana, il più allegro, Roger, il più dotato, Kabossé, il più irascibile, Cavalier, il più robusto, Zadis, il più silenzioso. Una “gang di morti di fame”, manovali e miserabili da marciapiede, che hanno deciso di conquistare il mondo cantando la loro città. Sporca, scolorita, lebbrosa, caotica, imprevedibile, esibizionista, teatrale, violenta. A Kinshasa non ci sono strade, non c’è acqua né elettricità, non ci sono scuole, trasporti pubblici né fognature, ma gli abitanti si mettono in mostra senza tregua per non scomparire e per cercare di scongiurare questa disgregazione continua.
In molte famiglie che vivono nella capitale si mangia una volta ogni due giorni: un giorno i bambini, il giorno dopo gli adulti. Meno del 50 per cento della popolazione ha un salario regolare, più dell’80 per cento è disoccupato e più della metà vive sotto la soglia di povertà e ha meno di 15 anni. Per strada si sente dire: «Kobeta libanga» (“bisogna lavorare duro per guadagnarsi il pane”), ma anche: «Congo ekobonga te» (“Il Congo non uscirà mai dal baratro in cui si trova”).
Diventata la più grande città francofona dell’Africa subsahariana per numero di abitanti, Kinshasa ha un tasso di crescita del 6 per cento. Si costruisce a suo piacimento, senza nessun piano regolatore, secondo il gusto dei nuovi venuti, che creano in modo anarchico il loro spazio vitale. Ogni anno servirebbero 200.000 nuove abitazioni.

I bambini di Che Guevara
Un'immagine di Kinshasa, metropoli di otto milioni di abitanti, in continua disgregazione, in cui la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà. In molti la chiamano oggi anche «la città della spazzatura»«La città esercita un enorme potere di attrazione», scrive l’organizzazione non governativa Medécins du Monde in un recente rapporto, «e continua ad assorbire le popolazioni rurali a un ritmo sostenuto, ma sembra che qui l’unica cosa che si sviluppi sia il sottosviluppo. Kinshasa è un luogo di esclusione e marginalizzazione. Una bidonville di miseria e analfabetismo».
Poco prima dell’indipendenza dal Belgio, nel 1960, quando Kinshasa si chiamava Leopoldville (per i congolesi era Lipopo), in città vivevano 400.000 persone. Dieci anni dopo erano un milione e oggi otto volte di più L’esplosione demografica è aumentata a causa della guerra e dell’insicurezza che regnano a est del Paese e spingono la gente a rifugiarsi nella cpitale. Questo ha causato profondi cambiamenti nella vita sociale: l’erosione della cultura tradizionale, la destabilizzazione della solidarietà tra le comunità e un “salto senza paracaadute” nell’era globale.
Il risultato più evidente di questa accelerazione della storia e dell’esplosione della struttura familiare sono gli shegué. Migliaia di bambini abbandonati (se ne contano tra i 30 e i 50.000), che vivono per le strade di Kinshasa. Fanno i lavapiatti nelle bettole, i guardamacchine, i venditori di sacchetti di plastica riempiti di acqua minerale o i borseggiatori, secondo le circostanze, e di notte dormono ovunque sui tonkara (i cartoni in gergo locale).
Secondo alcuni, shegué è una contrazione di Che Guevara, perché così si chiamavano i bambini-soldato che facevano parte dell’esercito dell’ex presidente Laurent Désiré Kabila, quando prese il potere nel 1997, rovesciando il regime di Mobutu. Kabila, tra l’altro, aveva conosciuto Che Guevara nel 1965, quando il comandante argentino era venuto in Congo.
Secondo altri, invece, shegué è un riferimento ironico all’area Schengen, che ha bloccato l’emigrazione dei congolesi in Europa.
Prima di entrare nello Staff, Roger è stato a lungo uno shegué. A sette anni, abbandonato a se stesso per i frequenti ricoveri in ospedale di sua madre, ha seguito una banda di ragazzini che viveva di espedienti intorno al Centro Culturale Vallone di Kinshasa. Roger si ricordava che il nonno, del basso Congo, suonava uno strumento composto da una zucca, un arco e una corda, e ha cercato di crearne uno con quello che aveva a disposizione. Ha preso una scatola di conserva, un pezzo di legno ricurvo e una corda di chitarra. Modificando la tensione della corda con una mano e pizzicandola con l’altra, è riuscito a produrre delle melodie da quell’improbabile bricolage. Aveva appena inventato il satongué, che in un racconto tradizionale per bambini, è il nome di un mago gentile con una sola gamba e un solo braccio. A furia di esercizi e di improvvisazioni sfrenate, Roger è diventato un musicista straordinario.
Nel 2005 Ricky ha notato questo ragazzino dallo sguardo perso che, da lontano, inseriva qualche nota sulle loro melodie, quando lo Staff improvvisava un concerto sui marciapiedi del quartiere. Lo ha preso sotto la sua protezione, gli ha insegnato gli accordi, le melodie, i ritmi e in pochissimo tempo Roger ha rivelato un virtuosismo incredibile, capace di suoni fluidi o nevrotici. Quando ha avuto l’idea di elettrificare il suo satongué, sembrava Jimi Hendrix trapiantato al centro dell’equivalente congolese del Buena Vista Social Club.

Buche come laghi
Ormai, con la sua unica corda e la scatola di conserva, è un fuoriclasse. Oggi Roger ha 18 anni. Abita in una casa buia e triste in calcestruzzo che si trova nei presi di Kibanga, un quartiere periferico di Kinshasa, dove si arriva con un solo treno o, alla fine del servizio, con dei motociclisti a pagamento. Sulla strada che costeggia la ferrovia, in mezzo a un labirinto di carriole, biciclette e pedoni sfiniti, andiamo a tutta velocità, facendoci spazio a colpi di clacson. Scivoliamo sui sacchetti di plastica e affondiamo dentro pozzanghere grandi come stagni nei tratti in cui la strada è sprofondata a causa della pioggia; «è la regione dei Grandi Laghi», dice scherzando il guidatore.
La copertina di «Très très fort», il primo album realizzato dallo Staff Benda BililiTratteniamo il respiro per evitare i miasmi che vengono fuori dalle fognature ostruite e dopo una logorante mezz’ora arriviamo da Roger, che ci aspetta sulla soglia di casa. Deve farsi questa traversata – tre ore in un senso e tre ore nell’altro – quasi tutti i giorni per andare a fare le prove e ne ha le scatole piene. «Non ne posso più di vivere in questo ghetto e di fare la fame. Il Congo è un Paese dove si soffre sempre e io voglio una vita migliore», mi racconta. «Suono per ottenere qualcosa nel futuro. faccio musica senza frontiere, l’international blues. Fare il musicista è un mestiere, non è un gioco. E io voglio diventare direttore artistico». I figli del Congo aspettano che prima o poi Dio o qualcun altro pensi un po’ anche a loro. Nel frattempo si arrangiano.
Dopo le prove i musicisti siedono in una malewa – un ristorante di strada – a Lemba, nell’est della città, e lì bevono birra e mangiano chikwanga (pasta di manioca avvolta in una foglia di banano) e bruchi bianchi arrostiti vivi. Poi lo staff si separa: Koko raggiunge i suoi figli, Kabossé imbraccia le stampelle, Théo scompare e Ricky ci propone di andare a trovare la sua famiglia che vive lì vicino, al centro di ospitalità per disabili di Kinshasa. In realtà è un hangar miserabile dell’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati, dove da dieci anni sono ammassate cinquantasette famiglie. L’immobile è in costruzione e delle tegole arancioni pendono dal tetto. I pavimenti sono di terra battuta, l’acqua non c’è e l’elettricità è allacciata “in modo selvaggio”. Ognuno delimita il suo spazio con una rete d’incannucciata. Ricky sta lì nei weekend, mentre durante la settimana dorme per strada, al centro di Kinshasa, vicino al banchetto ambulante di sigarette e ghiottonerie. La madre dei suoi tanti figli lo accoglie sarcastica con un «Ricky sei tp (troppo potente), però ora levati dai piedi».
Lui con aria fiera ci mostra la sua televisione e i cento canali che riceve via satellite. E soprattutto qui può ascoltare il CD dello Staff che è stato registrato clandestinamente otto mesi fa allo zoo di Kinshasa, tra i cavalli del presidente Joseph Kabila.
La loro musica è migliorata nel tempo. Più densa, più blues, più funk e con evidenti ammiccamenti a James Brown. ma c’è sempre quella rabbia ondeggiante e quell’energia assolata che la distingue dalle melodie asettiche interpretate dalle star della musica congolese come Papa Wemba o Koffi Olomide; è più vicina all’incantesimo e alla trance di Wendo Kolosoy e di Franco, i veterani della rumba congolese degli anni Sessanta.

Lo scimpanzé isterico
La registrazione notturna del CD «Très très fort» nello zoo di KinshasaLa fortuna di Ricky e dello Staff è di avere incontrato sulla loro strada Renaud Barret e Florent de La Tulaye, due trentenni francesi, uno fotografo e l’altro pubblicitario, che si sono innamorati dei ritmi della città e del lento e ammaliante ancheggiare delle donne di Kinshasa. Vivono lì da ciqnue anni e hanno fondato insieme la Belle Kinoise, una piccola società di produzione che ha realizzato tra le altre cose un video sulla boxe femminile nella capitale.
Florent e Renaud hanno scoperto lo Staff casualmente, per strada, e da allora non hanno smesso di filmare questi ragazzi malridotti ma allegri. Hanno convinto Crammed Disc, un’etichetta indipendente belga specializzata in rock alternativo e musica africana tradizionale-moderna, a ingaggiarli. Vincent Kenis, ex musicista di Papa Wemba e ora produttore artistico a Bruxelles, li ha registrati di notte allo zoo di Kinshasa con un MacBook e un microfono che era stato usato da Jacques Brel… Erano tutti sotto un albero, tra uno scimpanzé isterico, un pitone di 90 anni e un leopardo esausto. I membri dello Staff hanno avuto un anticipo di 7.500 dollari sui loro diritti. Una piccola fortuna, a Kinshasa, che loro – eccentrici ma non matti – si sono affrettati a depositare sul conto dell’Associazione Staff Benda Bilili. Ricky vorrebbe comprarsi una casa per togliere i figli dalla strada e avere un vero locale per le prove. Roger si è comprato una bicicletta per lui e per la sua fidanzata. Koko ha installato un nuovo motore sulla sua Peugeot blu.
Qualche giorno dopo, mentre parlavamo di questo, all’ombra di una baracca malandata del banco delle scommesse che sta dietro il centro per disabili, Théo ha tirato fuori un pacchetto di sigarette da una busta dell’Unicef per venderne tre a un tizio che passava. Dopo ha messo i soldi nel sacco, con un grande sorriso sulle labbra. Musicista, di sicuro, ma sempre “uomo d’affari”. Poi si è avvicinato un tipo altissimo che vendeva gelati con una cassetta blu sulla testa. da un lato c’era scritto “amore”, dall’altro “lecca-lecca”. Serge Gainsbourg avrebbe apprezzato [l’artista francese che alla fine degli anni Sessanta compose Je t’aime… moi non plus, N.d.R.].
Invece, nel quartiere di Matongué, c’è un gigante vestito di stracci che va in giro circondato da shegué: è stato lo sparring partnere di Muhammad Ali durante l’incontro di boxe contro George Foreman, combattuto a Kinshasa nel 1974. Dopo un viaggio negli Stati Uniti è impazzito e da allora scrive graffiti incomprensibili, prendendosela con Kabila e Obama.
«In Congo, come in tutta l’Africa, sotto la superficie della realtà visibile si è sempre nascosta una seconda realtà invisibile», scrive il sociologo belga Filip de Boeck nel suo formidabile Kinshasa, Tales of the Invisible City. Kinshasa è una città di un altro mondo, un pandemonio sull’orlo del baratro, dove il passato non è solido, ma il presente può ancora offrire qualche certezza. I componenti dello Staff Benda Bilili sono i “cavalieri dell’Apocalisse”, che con la chitarra in spalla fanno lo slalom fra le strade e i viali sventrati. A cavallo di motociclette rumorose e fiammeggianti e urlando «Très, très fort».

*Reportage pubblicato da «Le Monde 2», settimanale del quotidiano francese «Le Monde», tradotto e pubblicato in Italia dal settimanale «Internazionale» (titolo: Note di rumba a Kinshasa), che ce ne ha gentilmente concesso la riproduzione.

Staff Benda Bilili
Si tratta di un gruppo di otto musicisti di strada nato nel 1999. Nel 2006, in vista delle elezioni nella Repubblica Democratica del Congo, lo Staff ha composto il suo primo singolo di successo: Let’s go and vote. Il primo album, Très très fort, è uscito nel marzo di quest’anno con l’etichetta indipendente Crammel Disc.
Le pagine ufficiali del gruppo sul web sono www.crammed.be/staffbendabilili e http://www.myspace.com/staffbendabilili.
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