Una recente sentenza del Tribunale di Salerno, che ha permesso a una coppia non sterile, ma portatrice di una grave patologia trasmissibile geneticamente (l’amiotrofia spinale di tipo I), di procreare con l’ausilio di tecniche di procreazione medicalmente assistita, ha suscitato molto clamore e reazioni contrastanti nel mondo della politica e nelle coscienze dei cittadini [la Legge 40/04, ricordiamo, lo consente infatti solo per i casi di sterilità e infertilità, N.d.R.].
Per il sottosegretario al Ministero della Salute, Eugenia Rocella, «la sentenza […] introduce il principio che la disabilità è un criterio di discriminazione rispetto al diritto di nascere»; secondo l’avvocato Filomena Gallo, invece, legale della coppia e vicepresidente dell’Associazione Luca Coscioni, si tratta di una lettura della Legge 40/04 «costituzionalmente orientata» e atta a favorire la nascita di un figlio che possa sopravvivere (la madre ha avuto tre aborti, un figlio sano e il bambino frutto della quinta gestazione morto in tenerissima età). In tal senso, quindi, di una difesa del diritto alla vita.
Anche all’interno del mondo delle persone con disabilità – che è poi lo stesso “degli altri”, cioè di tutti – si prevedono reazioni contrastanti.
Difficile schierarsi: personalmente ritengo che la legge in oggetto abbia avuto probabilmente una stesura troppo ideologicamente orientata. Forse era possibile, infatti, prevedere precisi e reali casi nei quali la norma concedesse la procreazione medicalmente assistita anche a coppie non sterili, senza per questo cadere in barbarie eugenetiche di triste memoria.
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