Vorremmo semplicemente che si parlasse di persone

di Giovanni Barin*
«È l’ora di un avanzamento culturale - scrive Giovanni Barin -, perché le parole contano! Insegnamolo sempre, costantemente, con ostinazione ai nostri figli, ai ragazzi, agli alunni e studenti: le parole sono importanti! Altrimenti, tocca sentire dai nostri figli che il vicino di banco «mi ha detto... ciao handicappato! Perché, papà?». E aggiunge: «Vorremmo semplicemente che si parlasse di persone. Siamo tutti persone, punto. Se poi diventa indispensabile scendere nello specifico delle particolarità della persona, allora si aggiunga “con disabilità”. Semplice, no?»
Realizzazione grafica sulla discriminazione in base alla disabilità
«Vedi me oppure la mia disabilità?»: questa la traduzione del testo presente in questa realizzazione grafica dedicata alla discriminazione basata sulla disabilità

È un luogo comune, tuttavia vero, rendersi conto, osservandolo ripetutamente, che un oggetto è assai diffuso quando diventa per noi interessante. Dimenticandosene velocemente.
Per una persona con disabilità o per la sua famiglia – coinvolti in questo periodo sul tema della scuola, “grazie” alla riforma sull’inclusione scolastica – è facile osservare che la gamma di termini con i quali si viene identificati è quanto mai ampia, andando a ripescare parole di cui la disabilità non vorrebbe più sentir parlare, né vedere.
Come padre di una persona con disabilità, infatti, sentire parlare ancora oggi di “handicap” e “handicappato”, “portatore di handicap”, “diversamente abile”, “disabile”, “diversabile” ecc., ai quali si sommano le declinazioni frequentemente dispregiative sulla patologia/condizione della persona, offre la misura di quanta strada debba ancora fare la società per potersi dire realmente inclusiva.

Capita che con Alessandra Corradi [presidente dell’Associazione Genitori Tosti in Tutti i Posti, N.d.R.] si discorra proprio di questo e si incorra in brevi ma significativi confronti con chi, si dà per scontato, abbia acquisito che la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, essendo l’ultima fondamentale Legge dello Stato sul tema [Legge 18/09, N.d.R.], sia il riferimento, lo stato dell’arte anche sotto questo aspetto. Scoprendo, amaramente, che non è così. “Persone con disabilità”, infatti, è il termine utilizzato dall’ONU e dallo Stato italiano, ma càpita invece di trovare ancora “diversamente abili” diffusamente utilizzato, come anche nei giorni scorsi, durante le Audizioni delle Commissioni Parlamentari, proprio mentre si parlava della riforma dell’inclusione scolastica.
Sia chiaro: non ne facciamo una colpa. Crediamo però sia importante mettersi nei panni delle persone delle quali e con le quali stiamo parlando. E riflettere.
Sarà questo svilimento che lo Stato fa di se stesso, con la vergognosa distruzione dello Stato Sociale, a generare una mancata evoluzione del linguaggio? Ebbene, se è così ribelliamoci anche a questo!
Vorremmo semplicemente che si parlasse di persone. Siamo tutti persone, punto. Se poi diventa indispensabile scendere nello specifico delle particolarità della persona, allora si aggiunga “con disabilità”. Semplice, no?

È l’ora di un avanzamento culturale, perché le parole contano! Insegnamolo sempre, costantemente, con ostinazione ai nostri figli, ai ragazzi, agli alunni e studenti: le parole sono importanti! Altrimenti, tocca sentire dai nostri figli che il vicino di banco «mi ha detto… ciao handicappato! Perché, papà?».
Stavolta una risposta semplice da dare a un bambino o ragazzino non è per nulla scontata e forse può essere utile, in uno slancio tecnologico, dimostrare ai pargoli che chi dice così, semplicemente sbaglia. Guardiamo ad esempio cosa ci dice Google. Ecco, sediamoci al PC e ricerchiamo insieme persone con disabilità o diversamente abili. Riportiamo per brevità solo i risultati della prima pagina del motore di ricerca.

La prima risposta arriva dal blog InVisibili del«Corriere della Sera»: «Diversamente abile, invalido, disabile: basta! Proviamo a non usarle più? Le parole sono importanti. Di più, le parole mostrano la cultura, il grado di civiltà, il modo di pensare, il livello di attenzione verso i più deboli. Non è una esagerazione. Cambiamo il linguaggio e cambieremo il mondo. Ci sono parole da usare e non usare. E quelle da non usare non vanno usate. Hai voglia a dire: chiamami come vuoi, l’importante è che mi rispetti. No! Se mi chiami in maniera sbagliata mi manchi di rispetto. Se parliamo di disabilità, proviamo a usare termini corretti, rispettosi? Parole da usare e non usare. Concetti da esprimere o da reprimere. Semplicemente: persona con disabilità. L’attenzione sta lì, sulla persona. La sua condizione, se proprio serve esprimerla, viene dopo. La persona (il bambino, la ragazza, l’atleta ecc.) al primo posto. Questa è una delle indicazioni fondamentali che giungono dalla “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone con disabilità” (New York, 25 agosto 2006, ratificata, e quindi legge, dallo Stato Italiano). Non: diversamente abile, disabile, handicappato (ma lo usa ancora qualcuno?)».
Sì, mannaggia, lo usano ancora tanti! Anche il compagno di banco! Comunque grazie Claudio Arrigoni, questo primo link ci conforta.

Andiamo avanti: il secondo responso è prezioso, arrivando nientemeno che dall’Accademia della Crusca, da Federico Faloppa, che si sofferma sull’«inglese to handicap – che in italiano ha dato origine prima al verbo handicappare “porre in stato di inferiorità” e poi al participio con funzione sia sostantivale sia aggettivale handicappato». E successivamente scrive: «Nelle loro accezioni medico-sociali handicap e handicappato (in forma quest’ultimo tanto di sostantivo quanto di aggettivo) sono stati avvertiti come legittimi (e semanticamente neutri) almeno fino agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. Non a caso, ancora nel 1992, la Legge quadro 104 si proponeva di normare “l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. Tuttavia, durante lo stesso decennio, si è assistito a un significativo avvicendamento tra le coppie handicap/handicappato e disabilità/disabile. Lo si evince non solo dalla stessa giurisprudenza, ma anche da altre forme di testualità (basta inserire i binomi in un motore di ricerca di un qualsiasi quotidiano nazionale per fare una prima sommaria verifica), che documentano piuttosto chiaramente la novità nel paradigma».
Così chiude Faloppa: «Tuttavia, se nell’uso si avverte tanto l’inadeguatezza dei termini più consolidati, spesso connotati negativamente (secondo un sondaggio pubblicato il 20 maggio 2009 dalla rivista “Focus”, handicappato sarebbe ormai avvertito come un vero e proprio insulto) o semanticamente “difettivi” (disabile), quanto dei loro sostituti pro-positivi (diversamente abile, diversabile), considerati affettati e “politicamente corretti” anche dagli stessi soggetti che nominano (come l’artista David Anzalon [in realtà Anzalone, N.d.R.] detto Zanza, che rifiuta gli eufemismi a vantaggio di handicappato), occorre accettare una complessità che – temo – non può essere risolta con una serie di aut aut, ma che tenga conto dell’evoluzione del dibattito e della varietà dei contesti e delle situazioni d’uso, su cui testare non solo le proprie competenze linguistiche, ma anche le proprie sensibilità: l’insieme – e il bisticcio è voluto – delle proprie abilità».
Ecco, tener conto dell’evoluzione del dibattito è senz’altro illuminante. Ed era il 2013.

Il terzo link ci conduce al sito «Parlare Civile.it», che riporta come slogan Comunicare senza discriminare.
Estrapoliamo una parte nella quale si cita il compianto Franco Bomprezzi: «“Caro Saviano, sei diversamente bravo” ha scritto Bomprezzi sul blog InVisibili [il medesimo testo fu pubblicato in contemporanea anche dal nostro giornale ed è rintracciabile a questo link, N.d.R.], ribadendo l’importanza di usare l’espressione “persone con disabilità”, scelta dall’Onu (vedi Disabile). “Se continuiamo a pensare che la disabilità sia qualcosa di ‘diverso’, addirittura una grande opportunità per sviluppare ‘diverse abilità’ – scrive Bomprezzi – facciamo un grave torto a quei milioni di persone nel mondo che ogni giorno si battono solo per vedere rispettati i propri diritti di cittadinanza alla pari degli altri, anche se non sono bravi come Michel Petrucciani”. Bomprezzi sottolinea di apprezzare lo spirito sincero e la passione di Saviano nella scelta del tema e della storia commovente da raccontare. Ma anche uno scrittore come Saviano è caduto nella trappola delle parole. “‘Diversamente abili’ – dice ancora Bomprezzi – è proprio l’espressione preferita da quei politici che Saviano critica. A loro infatti suona benissimo, perché gli consente di far bella figura senza bisogno di andare al cuore dei problemi e dei diritti delle ‘persone’ che possono anche essere del tutto ‘non abili’. Ma non per questo hanno meno diritto di cittadinanza, meno dignità” conclude il giornalista».

Quarto responso per “Webaccessibile.org” (e magari tutto il web, senza dimenticare i documenti elettronici e la carta stampata, fosse accessibile! Vediamo se le parole lo sono). «Inclusione – vi si legge – che ancor prima che nei fatti deve essere nelle parole. Accade invece che quando una persona che deve parlare o scrivere di disabilità in un contesto scientifico, accademico o divulgativo, anche se culturalmente preparata ed in buona fede, si trova in grave difficoltà. Usa parole che fanno venire la pelle d’oca alle persone che vivono quotidianamente nel mondo della disabilità».
Chiude il pezzo un’esemplare tabella riepilogativa, che lascio ai Lettori esplorare. Basti questo: «PLURALE: LE PERSONE CON DISABILITÀ – Deprecabile: gli handicappati, gli orbi, gli incapaci, gli inetti, gli inabili. Tollerabile: i disabili, i sordi, i ciechi, i muti, gli schiantati. Un po’ meglio: le persone disabili, sorde, cieche, schiantate. Molto meglio: le persone con disabilità, con sordità, con cecità, con esiti da trauma cranico encefalico».

Al quinto posto ci imbattiamo in Wikipedia, che richiama la Convenzione ONU nella pagina dedicata al termine Disabilità, dopo un interessante excursus storico, e al sesto nel sito «Tuttoscuola.com», secondo il quale «non hanno dubbi in merito le associazioni di categoria e lo stesso Miur che in tutti gli atti ufficiali parlano di disabilità e di alunni disabili. Ad esempio, nel Regolamento sulla valutazione degli alunni (dpr 122/09) all’art. 9 si parla di “Valutazione degli alunni con disabilità”; nel Regolamento sulla rete scolastica (dpr 81/09) si parla più volte di alunni disabili, ecc. Ma, quando, meno te lo aspetti, a volte ritornano …. E nel decreto legge 5/2012 sulle semplificazioni appena approvato si parla per un paio di volte di “alunni diversamente abili”».
È uno scritto che risale a cinque anni fa, ci può stare che ancora non abbia ancora sdoganato il termine che le Associazioni di categoria utilizzano in accordo alla legislazione (e al buon senso).

«Educazione&Scuola», altro sito per la scuola, riporta al settimo link un passo importante: «La scuola educa alla democrazia. Si impara a leggere leggendo, a scrivere scrivendo. Alla democrazia si educa con la democrazia. E che c’entra questo con l’integrazione degli alunni disabili? Oggi l’integrazione, così come lo star bene a scuola (il che non significa disubbidire, rompere le finestre, fare casino, non rispettare le regole), è un valore per tutti. Nella repubblica di Platone, i valori venivano stabiliti dai filosofi. Per i guerrieri la guerra. Per gli iloti, il popolino poco più che schiavo dei potenti, il lavoro che doveva farli sudare per sé e per gli altri. La democrazia impone che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione di sesso e di condizione economica, umana e sociale».
La democrazia, dunque, impone anche il rispetto delle leggi, e quindi anche della terminologia corretta.

Ultima citazione da una saggia pagina dell’Associazione NONNOtaxi ONLUS: «È possibile utilizzare i termini “in condizione di handicap” o “in condizione di handicap grave”, ma solamente quando ci si riferisca ai commi 1 e 3 dell’articolo 3 della legge n. 104 del 1992, da cui provengono tali espressioni. Nelle comunicazioni interne ed esterne è opportuno utilizzare sempre le formule: “persona con disabilità“, “figlio (o minore) con disabilità”, “lavoratore con disabilità”. Sono invece da evitare i termini “portatore di disabilità“, “soggetto disabile”, “il disabile”, perché definiscono la persona solamente in base alla sua condizione di disabilità e non ne evidenziano le caratteristiche lavorative o per cui usufruiscono della tutela di norme di legge. La dizione “diversamente abili”, pure molto utilizzata, non è consigliabile, sia perché mette l’accento su una presunta “diversità” delle persone con disabilità, sia perché troppo generica: si può essere “diversamente abili” da un’altra persona pur non avendo nessuna disabilità». Saggio, appunto!

Evitiamo dunque che l’uso scorretto delle parole si agganci all’abitudine strisciante di offendere le persone. Educhiamo ed educhiamoci anche a questo per una società civile e rispettosa verso il prossimo.
I nostri figli ci soffrono. E non so voi, ma anch’io come genitore ci soffro. E a volte, mi incazzo.
«Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!» (Nanni Moretti in Palombella rossa).

Rappresentante per la Lombardia dell’Associazione Genitori Tosti in Tutti i Posti, nel cui sito le presenti riflessioni sono già apparse, con il titolo “Persone con disabilità. Perché le parole sono importanti”. Vengono qui riprese, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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