A distanza di più di dieci anni, era il 13 dicembre 2006, dall’approvazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, divenuta Legge italiana il 3 marzo 2009 (Legge 18/09), si è realizzato solo in minima parte il modello che avrebbe dovuto vedere nel diritto il punto di riferimento di ogni ragionamento sulla disabilità, compresa quella autistica: dal lavoro alla salute, dall’assistenza all’inclusione sociale, alla scuola, ai servizi ecc.
La realtà racconta di centinaia di migliaia di Persone con autismo, di cui il 2 Aprile ricorda, anche in Italia, la Giornata della Consapevolezza, che ogni giorno – nel nostro Paese – vedono sistematicamente violati i loro diritti.
A farsene carico continuano ad essere solo e soltanto le famiglie, che dedicano risorse, attenzione, passione, amore, rabbia, vita, a chi vedono soffrire ogni giorno. Sono i genitori a reggere, di fatto, il peso della quotidianità, a occuparsi di tanti e complicati problemi, in particolare di quelli che non spetterebbe loro risolvere.
Questo senso di solitudine e abbandono fa sì che la quotidianità assuma forme talmente logoranti, da far perdere finanche il senso della consapevolezza dei propri diritti: i problemi da affrontare sono così stringenti e immediati da non lasciare il tempo di pensare ad altro, anche quando “altro” significa, come in questo caso, pura rivendicazione di quanto è dovuto…
Si fa fatica a comprendere appieno questa condizione se non si conosce a fondo l’autismo: quello duro e gravoso che fa sentire il vuoto intorno e mina dentro; quello “a basso funzionamento”, che rende difficile e talvolta impossibile ogni cosa.
Pesa come un macigno la mancanza di una corretta cultura di questa grave disabilità, ancora intrisa di stereotipi fantastici e illusori, che alimentano un immaginario collettivo del tutto, o in gran parte, avulso dalla realtà.
L’autismo richiede uno sforzo e una coerenza senza i quali fatalmente può trasformarsi in una condanna senza appello, fatta di marginalizzazione ed esclusione. Nodi strategici, in assenza di un intervento mirato, intensivo e precoce, possono aggrovigliarsi a tal punto da far diventare esplosivi, inattesi e insormontabili eventi altrimenti normali, perché possibili e affrontabili.
Si può arrivare a dover intervenire per forza, urgentemente, e l’istituzionalizzazione, quasi sempre, come sanno bene le famiglie, è l’unica proposta in campo: marcatamente assistenziale (quando va bene) e sovrapagata alle cooperative, ma per lo più destinata a ridursi a mero accudimento e a un fare estemporaneo e votato al ribasso, in cui domina una delega totale, favorita in primis proprio da quei soggetti istituzionali che sarebbero (anzi, che sono) preposti al controllo.
La stessa rigidità con cui sono strutturati i servizi determina un forte scompenso tra le attività volte all’abilitazione e all’integrazione e quelle afferenti l’àmbito sanitario-assistenziale, con netta prevalenza di queste ultime. Ciò fa sì che le persone autistiche, molte delle quali adulte, si ritrovino inserite in un percorso di gestione puramente burocratica e psichiatrica dei bisogni, che nel lasciare poco spazio alla dimensione soggettiva, affettiva e relazionale, ne accresce sensibilmente la sofferenza, e pone inquietanti interrogativi (come quelli suscitati, per esempio, dall’articolo di Chiara Bonanno, pubblicato da «Superando.it» il 16 febbraio 2016, Strutture protette: i convincimenti e le leggende, e da quello di Salvatore Nocera, pubblicato sempre in «Superando.it», dal titolo fortemente evocativo: Strutture protette o da cui proteggersi?).
È da qui che forse deve iniziare una riflessione nel tentativo di comprendere il senso di alcune tragedie, consumatesi anche di recente. Basti ricordare, per tutte, la vicenda di Vespolate, nel Novarese, quando un padre, Pietro, ha ucciso, soffocandolo, Marco, il figlio autistico ventiduenne, che era stato inserito dai genitori in una struttura residenziale in previsione della morte, avvenuta di lì a poco, di Angela, la madre, malata di tumore.
Sarebbe andata a finire così se il progetto di vita di Marco, anziché essere elaborato in emergenza, fosse stato costruito a suo tempo, permettendo la realizzazione di una dimensione più gratificante e dignitosa per sé e i suoi cari? Ci sarebbe stato lo stesso epilogo se a Pietro, che aveva nel lavoro l’unica fonte di guadagno, fosse stata data la possibilità di godere di una pensione anticipata e/o di un sussidio che gli avrebbe assicurato la possibilità di assistere il figlio a casa, o di farlo assistere?
Pongo queste domande perché trovo inconcepibile che il tema dell’assistenza indiretta sia oggi, in Italia, così colpevolmente trascurato. È assurdo che il Governo, mentre parla di contenimento della spesa pubblica, incentivi e finanzi il ricovero delle persone con disabilità in costose strutture residenziali (fino a 6-7.000 euro mensili, che detto… in altro modo significa che le cooperative percepiscono per ogni ospite almeno 70.000 – settantamila – euro all’anno!), osteggiando apertamente il diritto di scelta di una forma di assistenza alle persone con disabilità, quella affidata al careviger, che garantirebbe da un lato la riduzione vera della spesa pubblica e, dall’altro, la libertà di scelta in materia di sostegno alla non autosufficienza, che costituisce un aspetto fondamentale della tutela dei diritti umani.
La politica non perde occasione, soprattutto alla vigilia di importanti appuntamenti elettorali, di suonare la grancassa dell’approvazione di quelli che pomposamente definisce «specifici provvedimenti legislativi a favore dei disabili». Qualcuno – con innegabile senso dello humour – si è ultimamente spinto al punto da definire quelli appena trascorsi «anni storici», citando a mo’ d’esempio la Legge sull’autismo (134/15), la Legge sul “Dopo di Noi” (la 112/16), la Legge sulla Buona Scuola con i Decreti Attuativi collegati (dimenticando che molti autorevoli esperti di diritto ritengono che la 107/15 sia in contrasto con la Costituzione e con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità…), il Decreto del Presidente del Consiglio (DPCM del 12 gennaio 2017) sui nuovi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) Sanitari (in proposito è interessante la lettura dell’articolo di «Superando.it» Nuovi LEA, siamo solo al punto zero, pubblicato il 20 marzo scorso: inconfessabile, ma forte, è il timore che, con i numeri che caratterizzano l’autismo, potremmo presto scoprire di essere al punto “meno uno”, invece che “zero”!).
La verità è che al di là del discutibile (in)sano chiacchiericcio di certi inguaribili interessati ottimisti, delle misure conclamate non si vede alcun effetto concreto. La vita delle famiglie non è cambiata di una virgola. Per ora siamo all’enunciazione di vaghi princìpi: a una Legge sull’autismo senza risorse, che fatica a essere applicata anche solo in parte. A una Legge sul “Dopo di Noi” che favorisce solo chi ha possibilità finanziarie. A una Legge sulla Buona Scuola, travolta da ondate di scioperi che vedono quotidianamente protagoniste tutte le componenti scolastiche. A nuovi LEA che fanno dire a Vincenzo Falabella, presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap): «Se qualcuno spera che questi LEA siano davvero compiutamente esigibili rimarrà presto deluso. Il testo prevede, per essere realmente applicato, una serie di Intese Stato-Regioni. Sui tempi e gli intenti poco è dato sapere […]. Se poi mancano le risorse i tanto celebrati LEA possono essere ridotti o applicati in modo progressivo. Il che rende i diritti dei Cittadini molto aleatori».
Il tutto mentre diventano sempre più concrete le ipotesi di tagli, concordati tra Governo e Regioni, ai Fondi per le Politiche Sociali e le Non Autosufficienze [in realtà fugati, nei giorni successivi all’elaborazione di questo articolo, N.d.R.]. Può bastare?
In un contesto così drammatico, le Associazioni, per dare effettiva rappresentanza alle istanze di famiglie sempre più stanche di ascoltare solo belle promesse, sono chiamate a esercitare una ferma azione di contrasto e opposizione, più che rincorrere l’agenda e le lusinghe della politica. Devono battersi per la realizzazione di alcuni punti qualificanti: il riconoscimento del caregiver, il prepensionamento dei genitori di figli disabili, le risorse per il “Dopo di Noi”, la “reale” applicazione di Leggi esigibili oggi solo sulla carta.
“Consapevolezza dell’autismo” non significa indossare il “vestito della festa” il 2 Aprile e leggere al politico di turno parole commoventi e di circostanza. Il problema, per le famiglie, non è far luccicare, un giorno all’anno, gli occhi dei rappresentanti delle Istituzioni né accendere una tantum i riflettori della cronaca, ma sapere che i loro bisogni troveranno concreta risposta.
“Consapevolezza dell’autismo” significa lottare ogni giorno, al fianco delle famiglie, nei territori, dove i diritti dei figli sono colpevolmente disattesi: una volta dalla ASL, un’altra dal dirigente scolastico, un’altra dal responsabile del centro diurno o della struttura residenziale, un’altra ancora dalle lungaggini della burocrazia…
“Consapevolezza dell’autismo” significa costruire una strategia capace di ribaltare una condizione che nella stragrande maggioranza dei casi non è affatto costituita da “buone prassi” (il filo conduttore, alquanto naïf, del 2 Aprile 2016), ma di pura sofferenza per le persone autistiche, di quelle adulte in particolare.
“Consapevolezza dell’autismo” significa non essere subalterni, ma capaci di definire un programma su cui realizzare un confronto serio con gli interlocutori istituzionali, che devono essere vincolati al rispetto delle Leggi e degli impegni assunti, pena il ricorso a iniziative in tutte – tutte – le sedi, dalla mobilitazione di piazza alle corti giudiziarie, italiane ed europee.
Siamo stanchi di accordicchi e mediazioni al ribasso. L’autorevolezza e la credibilità di un’Associazione non si misurano certo con velleitari tentativi di accreditamento verso governi, partiti e sottosegretari “amici”, né flirtando con sponde mediatiche del web o della carta stampata: si è autorevoli e credibili, se con coerenza e tenacia si perseguono obiettivi e programmi condivisi con (e non per) le famiglie, che restano l’unico vero alleato e l’unico vero punto di riferimento per chi va a trattare in loro nome. Il resto sono solo pantomime e penose scorciatoie di irriducibili opportunisti a caccia di visibilità.
I diritti non sono in vendita, non rappresentano un lusso, ma la garanzia di uguale opportunità. Il 2 Aprile non sia una passerella mediatica, impregnata di retorica e utilizzata per promuovere libri, film, convegni e immancabili comparsate televisive dei soliti noti, ma un momento significativo di riflessione e partecipazione, cui devono seguire 364 giorni di fatti, di delibere, di leggi, di stanziamenti; di vere buone prassi, di riforme; di una Scuola che sia effettivamente “buona” non perché fa comodo parlarne a un sottosegretario e a un partito ma in quanto realmente capace di includere e assicurare un percorso formativo efficace; di servizi e strutture finalmente migliori, in grado di realizzare una presa in carico con caratteristiche compatibili con le difficoltà funzionali delle persone affette da autismo, sì da rappresentare il punto d’arrivo di scelte che le coinvolgano all’interno di un vero e proprio progetto di vita, da costruire e concretizzare ogni giorno, dall’infanzia all’adolescenza, all’età adulta e anziana; di una Sanità che funzioni; di modelli d’intervento alternativi, basati non sull’inserimento in “moderni istituti”, magari legati a business finanziari, dove l’attenzione alla qualità della vita non è certo assicurata dalla sanitarizzazione e assistenzializzazione degli spazi, ma in piccole comunità di tipo familiare pienamente inserite nel tessuto sociale, che si ispirano al modello del cohousing [“residenzialità condivisa”, N.d.R.], in cui siano centrali la qualità delle relazioni umane e il coinvolgimento delle famiglie; di politiche di integrazione attraverso le quali i nostri figli possano sentirsi parte di contesti relazionali dove poter agire, scegliere, vedere riconosciuto il proprio ruolo e la propria identità.
Bambini, adolescenti e adulti con autismo, potranno avere un presente e un futuro solo a condizione che i loro diritti siano – per davvero – riconosciuti, rispettati e soprattutto applicati, come sancito dall’articolo 26 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Ripartiamo di slancio da qui, da un paradigma in cui il disabile autistico sia finalmente visto come soggetto attivo di diritti e non come oggetto passivo di assistenza. Facciamolo senza tatticismi e opportunismi, con la consapevolezza che questa è innanzitutto una battaglia di civiltà su cui non è possibile mediare, perché la posta in gioco è il futuro e la dignità di ciò che di più caro abbiamo al mondo: la vita dei nostri figli!
Padre di un uomo autistico di 35 anni (www.facebook.com/autismoIN).
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