L’inclusione scolastica (e sociale) si fa con la partecipazione di tutti

di Antonio Ferraro*
«La rotta comune - scrive Antonio Ferraro - è l’inclusione sociale e scolastica, raggiungibile solo con la partecipazione attiva di tutti. E a livello nazionale, il luogo più adatto, sia per l’elaborazione di analisi e proposte che per monitorare e vigilare l’applicazione delle norme, sembra essere l’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Mettiamoci al lavoro!»

Aula di scuola vuotaNel suo articolo Rilanciare subito la cultura e soprattutto la prassi dell’inclusione scolastica, pubblicato da «Superando.it» il 22 novembre scorso, Salvatore Nocera ci ha proposto un’analisi lucida e schietta della situazione dell’inclusione scolastica in Italia,provando a rilanciare un dibattito da tempo assopito sulla realtà delle nostre classi, al di là delle autocelebrazioni ministeriali, prive di dati statistici a supporto.
D’altronde la stessa assenza di rilevazioni serie sulla qualità dell’inclusione dimostra che il nostro sistema scolastico, nonostante un’avanzata normativa in materia, non si sia ancora dotato di strumenti validati per valutare e autovalutare i propri interventi inclusivi.

Come afferma giustamente Nocera, sono tante, troppe le realtà in cui la sbandierata inclusione è fallita. Anzi, forse più che di fallimento, che presuppone comunque un precedente tentativo di cambiamento, dovremmo parlare piuttosto di inclusione mai neanche tentata, in un panorama disseminato di prassi di esclusione mai estinte. In quante scuole ancora esiste l’“aula del sostegno”? In quante scuole ancora l’insegnante per il sostegno viene invitato a portare fuori l’alunno con disabilità? In quante scuole ancora il Piano Educativo Individualizzato (PEI) viene redatto dal solo insegnante per il sostegno oppure, quando va bene, dal solo Consiglio di Classe, senza il contributo essenziale degli altri operatori della rete inclusiva? In quante scuole si utilizzano ancora termini come “portatore di handicap”, “diversamente abile”, “diversabile” o altre formule figlie di uno stigma sociale negativo sulle persone con disabilità?
Tante domande scomode sulla qualità della cultura inclusiva prevalente in Italia e delle pratiche che ne conseguono che forse avrebbero risposte altrettanto scomode per un Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) che trascura l’aspetto della ricaduta pratica della propria azione nella realtà. Una realtà fatta di persone in carne e ossa, che vivono la quotidianità delle dinamiche comunicative, sociali, emotive e di apprendimento della scuola.

Salvatore Nocera prova ad entrare in queste dinamiche e ad individuare le cause di una situazione preoccupante in termini inclusivi. Tra le principali c’è senz’altro una carenza di formazione all’altezza, sia in ingresso che in servizio, degli operatori scolastici. Ma proprio sulla formazione si dovrebbe fare uno sforzo ulteriore di analisi sulle ultime disposizioni legislative, al fine di coglierne gli aspetti positivi e negativi proiettati nella futura applicazione pratica.
Infatti, da una parte è da sottolineare positivamente il rafforzamento delle competenze di Pedagogia e Didattica Speciale, ma dall’altra chi ha prodotto il Decreto Legislativo 59/17 [quello sulla formazione iniziale dei docenti, N.d.R.] forse non ha fatto alcuna previsione sui possibili danni al già fragile sistema inclusivo scolastico, quando, terminato il cosiddetto percorso FIT (Formazione Iniziale e Tirocinio), entreranno nelle aule della scuola secondaria i neo abilitati all’insegnamento.
Qualcuno, per esempio, ha pensato che potrebbero aumentare i meccanismi di delega all’insegnante per il sostegno, nel momento in cui il sistema di formazione e reclutamento sfornerà insegnanti abilitati solo sul sostegno, perché ritenuti “specializzati proprio per questo” e quindi “diversamente abilitati”? La separazione dei percorsi di formazione e, di conseguenza, la separazione delle carriere, potrebbe produrre nei fatti una separazione di progettazioni e interventi anche all’interno della classe, minando così ogni possibile opportunità inclusiva. Inoltre, l’insegnante per il sostegno dovrebbe possedere anche competenze sulla disciplina, per contaminare la progettazione della stessa con metodologie e strategie inclusive più efficaci.
Su quest’ultimo punto forse è stata liquidata con troppa fretta e superficialità la proposta della cosiddetta “cattedra mista” (una parte delle ore di servizio sul sostegno e l’altra sulla disciplina), che avrebbe quanto meno consentito un più alto livello di corresponsabilità e coprogettazione, per una presa in carico più ampia ed efficace, finalizzata sia all’apprendimento che alla socializzazione.

Ma c’è un altro aspetto che spesso viene trascurato quando si parla di inclusione scolastica ed è quello dell’inclusione sociale, come se le due cose fossero separate. Spesso, infatti, sfugge anche agli addetti ai lavori – determinando a volte pastrocchi normativi – che l’inclusione scolastica non può essere efficace senza una più ampia inclusione sociale, che chiami in causa tutto il territorio in cui le persone vivono, per una progettazione di interventi integrati e coordinati tra loro. E se la situazione è drammatica a livello di inclusione scolastica, è tragica a livello di inclusione sociale, perché si aggiunge l’elemento deleterio dell’enorme disuguaglianza territoriale esistente tra i tanti e diversi sistemi di welfare locale, acuita negli ultimi anni da tagli devastanti ai trasferimenti statali nei confronti di Regioni e Comuni.
I dati sulla spesa sociale pro-capite dei Comuni (fonte: ISTAT, Dati ISTAT, giugno 2017), di cui il 25,1% è destinato alla disabilità, parlano chiaro: nel 2013 a livello nazionale per abitante venivano spesi appena 114 euro, a livello territoriale si passava dai 419 euro per abitante della Provincia Autonoma di Bolzano ai 20 euro della Calabria (-18,7% rispetto al 2012).
Si tratta di una situazione che si conosceva anche quando è stato congegnato il Decreto Legislativo 66/17 sull’inclusione scolastica, che prevede la redazione di un Profilo di Funzionamento su base ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, fissata nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.], per la formulazione del Progetto Individuale e del PEI. Dando per scontato il plauso per l’introduzione di un modello concettuale multidimensionale evoluto come l’ICF, quello che forse è sfuggito al Legislatore è che in molti territori il Progetto Individuale non viene neanche redatto oppure, quando viene redatto, non vengono finanziati gli interventi in esso previsti. Inoltre, senza un adeguato piano di formazione sull’utilizzo dell’ICF rivolto a tutti gli operatori, da quelli sanitari a quelli scolastici, si rischia di mantenere o, peggio, accrescere le distanze tra reti territoriali capaci di redigere profili di funzionamento ed altre incapaci di farlo.

Anche qui, dunque, la miopia politica ha trascurato il quadro reale in cui si sviluppa l’applicazione pratica della norma. Sarebbe stato politicamente più saggio porsi il problema di agire anche sul versante sociale, in sinergia con le Istituzioni competenti, per proporre una riforma più strutturale dell’intero sistema di welfare, da finanziare con risorse adeguate a sostenerlo.
Forse a volte sarebbe bene fermarsi a riflettere e ad ascoltare chi vive la scuola e i territori, prima di proporre azioni di cambiamento così impattanti per le persone. Forse bisognerebbe utilizzare più “forse”, aprirsi al confronto con tutti i soggetti interessati, favorendo la loro partecipazione, per mettere sempre in discussione anche le certezze granitiche su temi così importanti, come quello che riguarda il progetto di vita di migliaia di persone, e trovare insieme le soluzioni più adatte per rilanciare una cultura e una pratica inclusive degne di un Paese civile.

In conclusione, la rotta comune è l’inclusione sociale e scolastica, raggiungibile solo con la partecipazione attiva di tutti. Adesso è il tempo di rimboccarci le maniche perché tutto non sia più banalizzato con la solita bandierina sventolata ai tavoli internazionali in nome della nostra “gloriosa storia legislativa”, ma per dar vita a un processo reale di cambiamento culturale e di pratiche che investa ogni luogo della società.
A livello nazionale il luogo più adatto, sia per l’elaborazione di analisi e proposte che per monitorare e vigilare l’applicazione delle norme, sembra essere l’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, perché attualmente è l’unico organismo composto dai rappresentanti di tutti i soggetti, istituzionali e non, interessati all’inclusione delle persone con disabilità ai vari livelli.
Mettiamoci al lavoro!

Direttore tecnico-scientifico dell’Associazione Comitato 16 Novembre, componente dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

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