Chi scrive utilizzando termini inglesi, e vuole essere certo di essere capito, deve avere l’accortezza di spiegarne il significato. Così, ogni volta che nomino la figura del caregiver familiare, mi sento in dovere di specificare che il/la caregiver familiare è Il toto nome
Però, diciamo la verità: comunicare in questo modo è pesante. Allora perché lo uso? Perché chi ha intrapreso un percorso di rivendicazione del riconoscimento giuridico di questa figura ha scelto di utilizzare il termine inglese, non essendo riuscito ad individuare un corrispettivo italiano (e, forse, non avendolo nemmeno cercato più di tanto).
Tra l’altro, nemmeno il termine inglese è privo di ambiguità: infatti, nei Paesi di lingua inglese esso è pacificamente utilizzato per indicare anche gli assistenti personali delle persone con disabilità remunerati (dunque dei lavoratori a pieno titolo), mentre in italiano è stato per lo più utilizzato per i familiari che prestano assistenza in modo gratuito, soggetti che del lavoratore riconosciuto non hanno né lo status, né le tutele, e, al massimo, sono equiparati a dei volontari.
I caregiver familiari lamentano, giustamente, di essere invisibili. Invisibili per lo Stato centrale sino al mese scorso, quando è stato varato un provvedimento che istituisce un Fondo appunto per i caregiver familiari pari a 20 milioni di euro annui per le prossime tre annualità; invisibili per le persone comuni: quando, lo scorso settembre, ho promosso un evento sul riconoscimento giuridico di questa figura, solo una persona comune su dieci ha mostrato di conoscere il significato del termine. Il campione non è rappresentativo, ma qualcosa mi dice che, se lo fosse, le percentuali non sarebbero molto diverse.
Ma se sei invisibile, e vuoi uscire da questa condizione, farti chiamare con un nome che quasi nessuno conosce non è esattamente la migliore delle strategie. Dunque bisognerebbe trovare un termine o un’espressione italiana per sostituire caregiver.
Il 27 novembre scorso, nell’anteprima del TG La7 delle 20, Enrico Mentana, introducendo la notizia sull’istituzione del Fondo per i caregiver familiari, si esprimeva così: «È stato varato anche un piano di aiuto per chi si prende cura delle persone gravemente inferme che si trova[no] in casa. Si usa un termine terrificante, inglese, caregiver, ma cercheremo di non usarlo mai. Questa è una promessa che vi facciamo perché non è difficile dire un aiuto, una sovvenzione, un’indennità per chi si occupa, per chi si prende cura, per chi bada alle persone inferme. Lo possiamo dire molto più chiaramente in italiano».
Un suggerimento viene dallo schema di testo unificato dei tre Disegni di Legge presentati al Senato per disciplinare la materia (schema arrivato all’11ª Commissione del Senato il 27 settembre scorso), dove viene utilizzato sia il termine caregiver, sia l’espressione “Prestatore Volontario di Cura”.
Vi piace? Vi convince? Qualcuno ha opportunamente notato che molti caregiver non svolgono questa attività “volontariamente” (ossia per scelta), ma per colmare la carenza di servizi pubblici di assistenza. Provo dunque a levare “volontario”, e mi rimane “prestatore di cura”. È sufficientemente univoco, o si può scambiare con qualche altra figura? Ad esempio, un medico, un infermiere, un fisioterapista, una badante, una puericultrice… Una variante meno ambigua potrebbe essere “prestatore gratuito di cura”.
Giorgio Genta, caregiver esperto che ha «maturato trent’anni di anzianità inutili ai fini pensionistici», tra il serio e il faceto ha spesso paragonato il lavoro del caregiver a quello del “mulo da soma” (se ne legga anche in Piccolo manuale dell’imperfetto caregiver, in «Superando.it», 15 novembre 2017). Ecco, sostituire caregiver con “mulo da soma” non lo scarterei a priori: attireremmo sicuramente l’attenzione di tutti gli animalisti (e sono tanti), mostreremmo che la fatica non ci ha levato l’ironia, e poi, cosa da non sottovalutare, i muli sono animali simpatici.
Maria Grazia Breda della Fondazione Promozione Sociale di Torino, via mail mi propone l’espressione “accuditore domiciliare”, ma anche questa può presentare delle ambiguità: niente da eccepire sul termine domiciliare, ma la parola “accuditore” non sembra attribuire un ruolo particolarmente attivo e partecipe all’“accudito”, quando invece dovrebbe essere pacifico che il lavoro di cura, anche quello informale e gratuito, ha come fine ultimo quello di consentire alla persona con disabilità non solo la sopravvivenza, ma anche l’espressione delle libertà inviolabili e di tutta l’autodeterminazione di cui è capace.
Un recente contributo alla riflessione arriva da Annamaria Testa, pubblicitaria nota e competente, che annovera caregiver tra le «parole inglesi di cui potremmo serenamente fare a meno» («Nuovo e Utile», 9 dicembre 2017). Alternative considerate: “curante”, o “curante familiare”, o “familiare curante”. Vi piacciono? “Curante” da solo non convince (fa molto medico). Degli altri due, “familiare curante” mi sembra funzioni meglio. Che ne pensate?
Un’ulteriore opzione potrebbe essere “familiare assistente”: secondo il vocabolario Treccani, il termine “assistente” è il «titolo di varie attività professionali o a queste assimilabili, che si esplicano in un’opera di coadiuvazione tecnica con il titolare o responsabile principale dell’attività stessa». Dunque l’espressione “familiare assistente” suggerisce l’idea di un familiare che affianca e supporta (non sostituisce) la persona con disabilità (che mantiene un ruolo attivo). “Familiare affiancante” o “familiare supportante” invece li scarterei perché sono veramente brutti.
E tuttavia mi viene da osservare che non tutti coloro che prestano assistenza sono familiari, e che, pertanto, utilizzare il termine “familiare” come parte di un’espressione per denotare chi presta cura informalmente e gratuitamente può rivelarsi limitante. Eviterei preliminarmente l’espressione “assistente domiciliare” perché utilizzata per identificare gli operatori delle cooperative che hanno vinto i bandi pubblici per l’erogazione dei servizi di assistenza domiciliare (l’assistente domiciliare è solitamente un lavoratore riconosciuto e remunerato). Potrei proporre “assistente informale”, anche se mi rendo conto che la comprensione non è molto immediata e intuitiva.
Infine, c’è l’opzione didascalica: “persona che assiste una persona con disabilità”. Certo, è un po’ lunga, forse, ma trovatemi uno/a che non la capisce?
Il toto nome è ufficialmente aperto: chi ha suggerimenti può scrivermi (info@informareunh.it).
Persona che assiste una persona con disabilità e responsabile di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito la presente riflessione è già apparsa (con il titolo “Cercasi nome italiano per il caregiver familiare”) e viene qui ripresa – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.
Articoli Correlati
- L'integrazione scolastica oggi "Una scuola, tante disabilità: dall'inserimento all'integrazione scolastica degli alunni con disabilità". Questo il titolo dell'approfondita analisi prodotta da Filippo Furioso - docente e giudice onorario del Tribunale dei Minorenni piemontese…
- Il riconoscimento del caregiver familiare In Italia la figura del caregiver familiare - colui o colei che a titolo gratuito si prende cura in modo significativo e continuativo di un congiunto non autosufficiente a causa…
- Sordocecità, la rivoluzione inclusiva delle donne Julia Brace, Laura Bridgman, Helen Keller, Sabina Santilli. E poi Anne Sullivan. Le prime quattro erano donne sordocieche, la quinta era “soltanto” quasi completamente cieca, ma non si può parlare…