…ma come fanno i marinai
a baciarsi tra di loro
a rimanere veri uomini però
(Lucio Dalla)
Silenzio, imbarazzo, invisibilità erano i termini utilizzati per descrivere la condizione della donna con disabilità già nel 1991, in uno dei primi convegni sul tema (Al silenzio… all’imbarazzo… all’invisibilità, 1991). Termini che conservano un valore descrittivo quasi inalterato. Infatti, ancora oggi la donna disabile si trova costantemente esposta a una discriminazione multipla che ne mina l’autostima, e genera in lei sfiducia e insicurezza.
In Italia una riflessione specifica sulla violenza nei confronti delle donne disabili si è sviluppata solo negli ultimi anni e principalmente grazie all’apprezzabile lavoro svolto da organismi impegnati nel settore della disabilità. Incontri pubblici di sensibilizzazione, ricerche (anche comparative tra Paesi diversi), pubblicazioni e iniziative di varia natura hanno richiamato l’attenzione sui molteplici aspetti di una violenza sulle donne che in presenza della disabilità assume anche connotazioni peculiari, diverse da quelle che solitamente si riscontrano nelle testimonianze delle altre donne.
Qualche esempio: la disabilità limita la possibilità di difesa in caso di aggressione. Il fatto di avere necessità di aiuto nello svolgimento di alcune attività rende queste donne più esposte a violazioni della propria intimità, della riservatezza e di altri diritti umani. In alcuni Paesi sono sottoposte a pratiche di sterilizzazione forzata, aborti selettivi, infanticidi. Spesso non vengono considerate (e trattate) come persone sessuate, che possano avere e destare un desiderio sessuale, ciò nonostante la cronaca mostri che frequentemente anche loro – come e più delle altre donne – sono vittime di abusi e violenze sessuali.
Di questo fenomeno – che a prima vista sembra paradossale – Emilia Napolitano, psicologa psicoterapeuta, esponente di DPI Italia (Disabled Peoples’ International), fornisce una spiegazione che «è semplice e crudele allo stesso tempo: l’abuso e la violenza sessuale hanno più a che fare con l’esercitazione del potere oppressivo che con la libido ed il piacere. Il potere oppressivo viene esercitato soprattutto sugli individui vulnerabili e la vulnerabilità aumenta se le persone vivono condizioni di emarginazione, esclusione, segregazione, dipendenza. E le donne con disabilità, più vulnerabili tra i vulnerabili, sono facile preda di violentatori ed aguzzini» (citazione riportata in Benedetti, 2008).
Da un esame sulla documentazione prodotta su questi temi emerge che le donne con disabilità in quanto disabili sono soggette a violenza (intesa come violazione dei diritti umani, violenza fisica e psicologica) da parte di uomini, di donne e delle Istituzioni.
La prima risposta a questo genere di problematiche è stata quella di sancire un principio di protagonismo della donna con disabilità nella propria vita. Per raggiungere questo scopo, diversi gruppi di donne disabili hanno lavorato sul rafforzamento della propria personalità, sulla promozione dell’autoconsapevolezza, dell’autoresponsabilità e dell’autodeterminazione, sulla costruzione di una valutazione positiva di sé e della propria autoefficacia (empowerment) e sulla rivendicazione dei propri diritti (advocacy).
Gli strumenti maggiormente utilizzati sono stati la consulenza alla pari (Violence means death of the soul [2003?], p. 13; Consulenza alla pari, 2006) e i corsi di autodifesa (Violence means death of the soul [2003?], p. 14; Valmarin, 2009).
Nell’azione preventiva solo in rari casi si è affiancato al lavoro con le donne disabili anche quello di altri soggetti. In un caso sono state coinvolte le madri di persone disabili, descritte (le prime) come potenziali – anche se inconsapevoli – autrici e vittime di violenza (Essere donna nella disabilità [2003?]), in un altro le assistenti personali (Donne con disabilità e assistenza personale [2003?]).
In un unico caso abbiamo trovato che anche alcuni uomini avevano preso parte ai lavori di riflessione (Bartolucci, 2004), ma, a parte l’accenno alla loro presenza, nulla è stato documentato rispetto al loro contributo. In questi percorsi la componente maschile rimane sfuocata e marginale, al centro c’è la vittima e il suo vissuto. La tendenza sembra quella di considerare la violenza sulle donne un problema delle donne, al quale sono sempre le donne a dover dare una risposta.
Tale impostazione si riscontra anche in contesti internazionali, nel momento in cui è richiesto che le politiche sulla disabilità includano anche le questioni di genere, e che le politiche di genere tengano conto delle tematiche relative alla disabilità (Quanta violenza sulle ragazze e le donne con disabilità!, 2010), considerando – frequentemente e impropriamente – quello femminile come unico genere. Anche quando la violenza è agita da uomini sulle donne in quanto donne, non è richiesta una riflessione maschile sui modi di esprimere la maschilità. La violenza maschile, dunque, non sembra essere considerata un problema maschile.
Questa propensione a parlare di violenza sulle donne concentrandosi sulle vittime, distogliendo lo sguardo dai suoi autori, non riguarda solo lo specifico mondo della disabilità, ma si registra in modo rilevante anche nel taglio degli articoli/servizi di cronaca proposti dai mezzi di comunicazione di massa. Le violenze e gli omicidi di donne compiuti da uomini vengono infatti descritti come gesti folli, drammi della gelosia, espressioni di una non meglio definita devianza, opere di fondamentalisti, stranieri, clandestini forgiati da culture diverse dalla nostra. Ma basta uno sguardo alle statistiche (Istat, 2009) per scoprire che le violenze più gravi sono più frequentemente agite dal partner, in particolare dal marito o convivente, e che le Regioni del Centro e Nord Italia hanno tassi di vittimizzazione relativi al corso della vita maggiori rispetto alla stima per l’Italia.
Nella sostanza ciò che si delinea è qualcosa che si potrebbe definire come una “tragica normalità”: questi uomini non sono pazzi, né genericamente devianti, né estranei, e neppure espressione di un ipotetico ritardo culturale del Sud. Sono uomini qualunque, che appartengono ad ogni età, estrazione sociale, area territoriale.
Il quadro si completa nel momento in cui diventa evidente che i modelli di virilità ancora dominanti nel nostro Paese – quelli di ispirazione patriarcale, che negano o sminuiscono la soggettività della donna – giocano un ruolo non neutro in questo scenario: in realtà gli uomini (e purtroppo anche le donne) che condividono lo stesso universo simbolico, lo stesso substrato culturale, in cui quella violenza si genera e si sviluppa, sono molti, ma questo è un tema troppo denso di implicazioni emotive, identitarie e politiche (nel senso di distribuzione del potere) perché le persone comuni accettino un confronto su tale terreno. Ciò nonostante una riflessione sul maschile è già stata avviata da diversi decenni sia a livello internazionale (i cosiddetti men’s studies), sia in Italia.
La violenza nei confronti delle donne è un fenomeno complesso, al quale concorrono molteplici fattori, ed è improprio pensare che esso possa essere sondato in modo esauriente utilizzando un’unica chiave di lettura. Ciò è vero a maggior ragione quando si combina con la presenza della disabilità. Tuttavia riteniamo che una riflessione critica che indaghi i processi di costruzione della mascolinità e della femminilità sia particolarmente appropriata per fare luce su alcune delle dinamiche che si sviluppano nelle relazioni tra i generi.
Uomini e donne sono esseri sessuati e risulta irrealistico ritenere che la loro sessuazione non abbia alcuna rilevanza nel loro reciproco relazionarsi. Pertanto, tornando al tema di cui ci occupiamo, la domanda che dobbiamo porci è la seguente: è possibile trovare nella riflessione sul maschile elementi utili alla prevenzione della violenza degli uomini sulle donne? Il quesito non è finalizzato a riproporre il vecchio e logoro schema che assegna agli uomini il duplice ruolo di aggressori e difensori, e alla donna quello di oggetto passivo da aggredire o da proteggere. L’idea è piuttosto quella di lavorare sulla qualità delle relazioni onde evitare che il confronto e il conflitto tra i sessi diventi distruttivo ed evolva in aggressività e violenza; è dunque possibile superare le reciproche diffidenze, rinunciare agli atteggiamenti di colpevolizzazione da una parte, e di rimozione/negazione dall’altra, per arrivare al riconoscimento e al rispetto delle rispettive soggettività?
Nel panorama italiano i gruppi di uomini che riflettono sui modelli maschili si presentano come “un arcipelago sparpagliato” che mal si presta ad essere ricondotto ad unità e che presenta aspetti contraddittori e ambigui. Volendo azzardare una semplificazione, possiamo provare a distinguere tra quelli che hanno avuto un esito conservatore e di rivalsa nei confronti delle donne e/o dei femminismi, e quelli che hanno avviato un percorso di riflessione critica sulla costruzione sociale dei modelli di mascolinità e promuovono la destrutturazione di questi ultimi.
Solo a titolo esemplificativo riportiamo di seguito alcune delle argomentazioni portate avanti dai primi. Il movimento maschile «Uomini 3000» (http://uomini3000.org) sostiene che negli ultimi decenni il genere maschile sia stato sottoposto a una permanente e ingiusta campagna di colpevolizzazione, denigrazione e dileggio rispetto alla quale intende esprimersi pubblicamente, e accusa i femminismi di avere strumentalmente negato che tra i generi esistano differenze naturali incoercibili che si riverberano in ogni ambito della vita pubblica e privata.
Il gruppo «Maschi selvatici» (http://www.maschiselvatici.it) assume come immagine guida l’Uomo verde che simboleggia la naturalezza e la selvatichezza maschile (caratteristiche capaci di assicurare fertilità alla vita umana e all’ambiente circostante); in tale sito sono pubblicati diversi documenti sul fenomeno della violenza femminile nei confronti degli uomini e del partner in particolare.
Il sito «Pari diritti per gli uomini» (http://digilander.libero.it/uomini) promuove la «campagna per la fine del sessismo e per il conseguente avanzamento giuridico, sociale e culturale dei cittadini di sesso maschile. Gli uomini, che rappresentano la più numerosa minoranza di questo paese, continuano infatti, a cinquant’anni dall’entrata in vigore della costituzione, ad essere considerati dallo Stato cittadini di serie B».
Per quel che poi concerne i secondi – ovvero i gruppi di uomini che si pongono in termini critici rispetto ai tradizionali modelli di mascolinità – è interessante osservare che alcuni di questi hanno preso le mosse proprio dal tentativo di dare alla violenza maschile sulle donne una risposta che non si limitasse a una solidarietà dovuta e politicamente corretta.
Tra questi vi è «Maschile Plurale» (http://www.maschileplurale.it), un gruppo attivo dagli anni Ottanta, che nel 2006 ha aderito pubblicamente alla manifestazione indetta dalle donne di «Usciamo dal silenzio» in difesa della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194/78) con la seguente motivazione: «Anche noi uomini in piazza. E non per solidarietà. Non c’è sostegno da dare alla lotta delle donne; c’è da costruire insieme lo spazio per una comune e differente libertà. A partire dalla nostra esperienza» (Ciccone, 2009b).
Alla base di questa riflessione vi è il convincimento che i modelli tradizionali di mascolinità siano oppressivi per gli stessi uomini e che il loro superamento costituisca un’opportunità e non una minaccia per questi ultimi.
Significativo è anche il progetto «Maschio per obbligo» (http://www.maschioperobbligo.it): nelle società occidentali la famiglia, la scuola, la chiesa, l’esercito, la pubblicità, l’arte, la letteratura condannano il maschio ad essere arrogante e prevaricatore e affermano la sua innata aggressività, «fino ad assegnargli quasi una inevitabile “biologia” dell’amore per la violenza; è fatale che per contraccolpo la stessa società condanni le donne a subire l’approccio violento del maschio fino ad esserne vittime predestinate. E dunque la battaglia per la liberazione del maschio dal ruolo fittizio a cui è stato condannato è solo un’altra faccia della battaglia per la liberazione della donna e la sua protezione dalla violenza. Ma il processo deve investire entrambi i ruoli, altrimenti è destinato all’insuccesso».
Infine, segnaliamo il gruppo «Uomini in Cammino» (http://web.tiscali.it/uominincammino), formatosi nel 1993 all’interno della Comunità Cristiana di Base (CdB) di Pinerolo (Torino), che denuncia il «maschilismo imperante nella chiesa (aborto, stupro, sessualità…)», che ritiene il genere maschile responsabile della violenza-oppressione verso le donne e che lavora affinché «l’autocoscienza individuale diventi collettiva, perché la colpa-responsabilità è collettiva».
Questa breve rassegna – pur essendo solo esemplificativa – mostra chiaramente l’esistenza di alcuni gruppi di uomini che rifiutano le sollecitazioni e le sfide scaturite nel processo di cambiamento dell’identità femminile, reagiscono ad esse con aggressività e paura, si mostrano poco inclini al cambiamento e all’autocritica, tendono anacronisticamente a riproporre i modelli di virilità stereotipata.
E tuttavia la stessa rassegna evidenzia anche la presenza di altri gruppi più aperti e disponibili al dialogo e al confronto che – pur sottolineando i dubbi, le perplessità e le contraddizioni di un percorso tutto da percorrere e da scoprire – testimoniano la possibilità di una maschilità diversa, plurale, avversa all’instaurazione di rapporti di dominio e all’uso della violenza. Gruppi di uomini – questi ultimi – il cui apporto potrebbe rivelarsi particolarmente proficuo nella rimozione delle radici della violenza maschile sulle donne (disabili e non). Questo senza nulla togliere all’utilità della riflessione sviluppata dalle donne (anche disabili) su questi temi, né a quella (più esigua) elaborata dalle persone a contatto con la disabilità (ad esempio: familiari, caregiver e assistenti), che possono diventare esse stesse artefici di violenza nei confronti delle persone disabili (uomini o donne che siano), o possono ritrovarsi in balia della violenza di queste ultime. Come ha spiegato una donna non vedente vittima di maltrattamenti e abusi: «Probabilmente anch’io sono capace di violenza: se riempi un vaso di aceto non puoi offrire del miele» (Bartolucci, 2004).
Prestare attenzione e soccorso alle vittime di violenza è un indicatore di civiltà. Poter contare su un rigoroso impianto giuridico/sanzionatorio ha una rilevanza strategica. Lavorare per accrescere la consapevolezza, l’autostima e l’autoefficacia delle donne è indiscutibilmente importante (non solo in termini di prevenzione della violenza). Ma queste misure non affrontano la violenza sul nascere. L’azione di soccorso solitamente si attiva quando la violenza è in atto o è già avvenuta, quando la vittima è diventata tale. Il giusto (giustissimo!) inasprimento delle pene per questo genere di reati mostra – alla prova dei fatti – di non essere un deterrente efficace. Una riflessione tutta al femminile non può che esprimere una visione parziale del fenomeno in questione. Per sconfiggere la violenza sul nascere è necessario dunque indagarne le cause e coinvolgere nelle azioni di prevenzione anche chi, per ragioni storico/culturali/ambientali, è più esposto al rischio di farvi ricorso. Eppure quest’ultimo approccio non sembra riscuotere l’attenzione e la visibilità che meriterebbe: si lavora di più per costruire una buona difesa e molto meno per non avere motivo di difendersi.
*Componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), nel cui sito il presente testo è già apparso (con il titolo Riflessioni critiche in tema di violenza sulle donne disabili) e viene qui ripreso per gentile concessione.
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