Che ci fa oggi la disabilità nel welfare? Chi se ne occupa seriamente? Come si misura la compatibilità fra i diritti, i bisogni, i servizi essenziali e le risorse messe a disposizione? Oggi piove, e il proverbio non aiuta. Però…
Possibile che la crisi non stia insegnando nulla, anzi, addirittura, stia diventando il grande alibi per ammazzare le speranze? Quando partecipo a riunioni o a convegni, quando leggo mail, documenti, dossier, trovo sempre e solo una chiave drammatica di lettura: la richiesta (mancanza) di risorse economiche. La disabilità si misura soltanto in soldi che non ci sono, che forse una volta (ma quando?) c’erano, e che adesso non ci sono più.
Non c’è progetto che non si basi sulla ricerca di uno sponsor, di una banca, di un padrino politico, di una giunta comunale, provinciale, regionale alla quale chiedere ascolto e comprensione. Tutto ciò che attiene a salute, assistenza domiciliare, trasporto, scuola, tempo libero, vita indipendente, sport si fonda non più sulla cultura del diritto, ma su quella dell’elargizione, della munificenza, della compiacenza politica.
In un sistema politico ormai definitivamente bipolare e progressivamente federale le persone disabili e le loro associazioni devono asservirsi al potere se vogliono sopravvivere. Devono tacere, mettere il silenziatore alle idee e alle proteste. Devono sorridere, accondiscendere, accompagnare. Al Nord, al Centro, al Sud, nelle Isole. Lo devono fare, e quando non lo fanno, per orgoglio, per un sussulto di dignità, perché la misura è colma, rischiano grosso, e sono perfino richiamati dai propri consanguinei, che consigliano prudenza, sottomissione, docilità.
La crisi sta avallando il potere dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri. Non è demagogia la mia, è la semplice constatazione dell’esistente. Sono stanco, stufo, scontento. Il colore dei soldi sembra imporsi su tutto e tutti. Provate a passeggiare per strada e ad ascoltare i discorsi della gente: si parla solo di denaro, di euro, di spese, di costi, di rinunce oppure di ostentazioni di acquisti. La crisi mondiale non ha insegnato nulla, il modello di vita è solo peggiorato. Viviamo di rinunce, di brontolii, di paure.
La crisi avrebbe dovuto – anzi deve – cambiare il modello di sviluppo. Io credo che mai come oggi le risorse essenziali, la spesa fondamentale di uno Stato ricco occidentale, debba essere destinata al welfare, alla qualità della vita dei cittadini, trasformando il problema in ricchezza, in opportunità, in risorsa per tutti.
Proviamo a tornare “al baratto”. Scambiamo almeno il nostro tempo, se non abbiamo il denaro. Ma non lasciamoci corrompere dal bisogno. Stiamo attendendo il decreto sui LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza. Stiamo assistendo alla dissipazione dell’integrazione scolastica. I servizi di trasporto pubblico rinunciano a priori al completamento dei percorsi e delle attrezzature per la mobilità universale. Nel mondo del lavoro la Legge 68/99 è finita, morta, disapplicata, irrisa.
E su tutto aleggia un’aria di regime, di pre-fascismo, di silenzio non imposto ma conveniente, che francamente mi inquieta. Le persone con disabilità sono appena un po’ protette non dall’alto, ma dal basso, ovvero esistono emergenze ancora più “sfigate”, come quella dei rom e degli immigrati. Le loro disgrazie ci tengono appena sopra la soglia dell’emarginazione sociale.
La campagna estiva di Tremonti e della Lega contro i falsi invalidi e contro l'”improduttività” dei disabili ha fatto breccia nella gente. Osservo sempre più evidente l’insofferenza, lo sguardo falsamente pietoso attorno alla disabilità. Chi ha fede dovrebbe ragionare almeno in termini di “com-passione”. Ma anche questo argomento sembra debole, travolto dal colore dei soldi.
La crisi doveva e deve rivoluzionare il modello di sviluppo. Non sta succedendo. Mi dispiace. Cerco uno sponsor per la speranza. Attendo offerte. Gratis.
*Testo apparso anche in «FrancaMente», il blog senza barriere di Vita.blog, con il titolo Il colore dei soldi e qui ripreso con alcuni adattamenti.
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