Leggendo i necrologi, si resta generalmente colpiti dalla “narrativa ricorrente” che spesso affiora in occasione della morte di persone con disabilità molto note. Inevitabilmente, infatti, spuntano le parole vincere o coraggio – spesso nella prima parte del necrologio – come nel caso di Helen Keller (1), encomiata dal «New York Times» quale persona che «vinse la cecità e la sordità», proprio in apertura del testo. O di persone come Christopher Reeve (2), l’avvocato Thomas Siporin (3), il lanciatore di baseball Mordecai Peter Centennial Brown (4) (conosciuto come “tre dita” a seguito della sua disabilità), tutti regolarmente appellati in questi termini.
Il più recente esempio di questa tendenza è stato offerto l’8 settembre scorso, alla morte di Ian Cameron (5), padre del premier inglese David, che è stato rappresentato come segue da un articolo del «Times»: «Ian Cameron è sempre stato determinato a non essere limitato o definito da quella che si è sempre rifiutato di chiamare la sua disabilità».
Spesso la formula «nonostante la sua disabilità» viene utilizzata per descrivere persone con disabilità di successo, trascurando i molti fattori che hanno contribuito al loro successo. Cosicché – quasi paradossalmente – pur dichiarando i necrologi che tali persone si sono rifiutate di essere definite dalla loro disabilità, le loro commemorazioni hanno tuttavia l’effetto di ridurre proprio loro – e le loro imprese – alla loro disabilità: diventano insomma dei “modelli” e degli “eroi”, in quanto hanno avuto delle vite piene nonostante siano stati disabili.
Molte delle persone con disabilità di alto profilo e notorietà che muoiono ai tempi nostri sono nate in un’epoca in cui il movimento per i diritti delle persone con disabilità era ben lungi dall’essere ciò che è diventato ora. Erano tempi in cui le idee dell’Ottocento continuavano a pervadere fortemente il modo di pensare alla disabilità, percepita ancora soprattutto come un problema attinente ai veterani di guerra. I servizi pubblici per le persone con disabilità erano minimi e i bambini con disabilità erano considerati alla stregua di “personaggi di una tragedia”.
In realtà, se quei personaggi fossero nati in famiglie differenti, le storie delle loro vite sarebbero potute essere radicalmente diverse. Essi nacquero infatti in situazioni di privilegio, con forti legami familiari e un’educazione stiff upper lip [traducibile con “capacità di rimanere imperturbabili davanti alle avversità”, N.d.R.], altro tema comune, questo, che si incontra parlando di disabilità.
Dalle persone con disabilità, infatti, ci si aspetta allegria e ottimismo, che non si lamentino e che siano – come pure qualcuno li chiama – “superdisabili”. Ad esempio l’attivista per i diritti delle persone con disabilità, Paul K. Longmore, è stato spinto a perseguire una carriera accademica e ammonito del fatto che un suo fallimento si sarebbe «ripercosso sfavorevolmente su tutte le persone con disabilità».
Descrivere però la disabilità come qualcosa che “dev’essere vinto” o “nonostante il quale” una persona potrà avere successo, è una vera e propria definizione “in opposizione”, che reca implicitamente con sé il fatto che “essere disabili sia una cosa negativa“, lasciando tuttavia intendere che “la disabilità non ti frenerà, se ce la metti tutta“. Da ciò consegue, naturalmente, che quelle persone con disabilità che falliscono nella vita non hanno che da prendersela con se stessi; avrebbero dovuto, infatti, “impegnarsi di più”, “non mollare” e mantenere tutto il loro spirito combattivo.
Ebbene, se le vite delle persone con disabilità vengono rappresentate in questo modo, il rischio è che questa visione possa essere utilizzata come una sorta di “clava”, per colpire quelli che non sono sufficientemente allegri, che non hanno abbastanza “motivazione” e che falliscono nel portare a termine alcuni incarichi. Se insomma Helen Keller è potuta diventare un’autrice di successo e un’attivista politica radical-socialista, questo starebbe forse a significare che un homeless [“senza casa”, N.d.R.] in carrozzina all’angolo della strada è solamente “un pigro”?
In realtà mentre disabilità come la tetraplegia di Christopher Reeve vengono dipinte come “ispiratrici”, le altre persone con disabilità sono biasimate per la loro mancanza di successo, quando invece i reali ostacoli che si trovano ad affrontare sono soprattutto economici e sociali e non dipendenti dai tratti delle loro personalità.
Oggi, nonostante vi siano stati straordinari progressi nell’area dei diritti delle persone con disabilità, queste ultime incontrano ancora un gran numero di barriere poste dalla società e non dalle loro “sofferenze”, come tendono invece ad affermare i media. Sono le persone più esposte a vivere in povertà, ad essere disoccupate, ad affrontare discriminazioni sul posto di lavoro. E queste sono tutte barriere sociali, non personali, che non possono certo essere vinte nemmeno con un assoluto sforzo di volontà.
Quel che c’è di notevole – nei casi delle molte persone con disabilità di successo di cui parlano i notiziari – non è il fatto che abbiano “vinto” le loro disabilità; è invece il fatto che abbiano superato le barriere sociali e che molti di essi ci siano riusciti con risultati egregi, grazie a una “nascita felice” o come risultato di un successo raggiunto prima di diventare disabili, ciò che succede ad esempio a molti atleti con disabilità.
Si tratta di personaggi che hanno potuto frequentare scuole eccellenti, hanno avuto lavori pronti ad aspettarli e spesso nelle società di proprietà della famiglia [come riportiamo anche in nota, il padre di Ian Cameron, ad esempio, era un importante banchiere, N.d.R.]. I loro familiari, inoltre, avevano le risorse e il tempo necessari per risolvere i problemi – quando le soluzioni non c’erano – e per lottare per la parità di accesso. Si tratta infine di persone con notevoli redditi, derivanti da importanti carriere e da utilizzare per modificare le loro abitazioni o per comprare ausili utili alla mobilità, opportunità, queste, non certo proprie alle comuni persone con disabilità.
In altre parole, hanno avuto successo non solo grazie alle loro “coraggiose” qualità, ma perché è stato letteralmente “eliminato ogni handicap” dalla loro vita. Ovvero ciò che dovrebbe essere per tutte le persone con disabilità.
*Traduzione e adattamento, in collaborazione con Stefano Borgato, di un articolo di S.E. Smith, pubblicato il 19 settembre 2010 dalla testata «Guardian» e disponibile in versione originale cliccando qui.
(1) Scrittrice, attivista politica radical-socialista e insegnante statunitense (1880-1968), Helen Keller fu sordo-cieca dall’età di 19 mesi.
(2) Attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense (1952-2004), Christopher Reeve divenne tetraplegico nel 1995, in seguito a una caduta da cavallo.
(3) Statunitense, difensore dei diritti civili, atleta e anche poeta e pittore (1942-2001), Thomas Siporin era affetto da poliomielite.
(4) Celebre giocatore statunitense di baseball della sua epoca (1876-1948), Mordecai Peter Centennial Brown fu soprannominato appunto “tre dita”, dopo avere subìto in gioventù la parziale amputazione di due dita della mano destra, a causa di un incidente sul lavoro.
(5) Ian Cameron, padre del primo ministro inglese David, è morto l’8 settembre scorso, a 77 anni, a causa di un ictus in Francia, dove stava trascorrendo le vacanze. Fin dalla nascita aveva avuto una disabilità che, come scritto dal «Telegraph», «aveva richiesto una serie di operazioni alle gambe». In tema con il presente testo, lo stesso «Telegraph» aggiungeva: «Nonostante avesse subito l’amputazione di ambedue le gambe, e la perdita della vista da un occhio, aveva intrapreso un carriera di successo come stockbroker». Da annotare anche che il padre di Ian Cameron era un importante banchiere.
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