“Casa Condivisa”: un potente strumento al servizio della pratica inclusiva

di Alice Imola, Cinzia De Pellegrin ed Elisabetta Bacciaglia*
«Un progetto di coabitazione come “Casa Condivisa” - scrivono Alice Imola, Cinzia De Pellegrin ed Elisabetta Bacciaglia - può rappresentare un potente strumento al servizio della pratica inclusiva, da realizzare non come “l’appartamento per disabili in mezzo agli altri”, come una sorta di “vetrina” da cui osservare la disabilità che comunque rimane lontana, “altro da noi”, bensì con la possibilità di modulare contesti in cui vivere e condividere le diversità, nel quotidiano, nella vita di tutti i giorni, ponendo, “Durante Noi”, i tasselli giusti per un “Dopo di Noi” possibile e di qualità»
Due persone coinvolte nel Progetto "Casa Condivisa"
Due persone coinvolte nel Progetto “Casa Condivisa”

Nello scorso mese di marzo ha compiuto un anno la nuova avventura della Fondazione CondiVivere e della Cooperativa Sociale Sì si può fare: si tratta del Progetto Casa Condivisa, occasione di coabitazione tra persone con e senza disabilità.
L’idea del cosiddetto CoHousing entra in sinergia con i vari progetti di inclusione sociale, lavorativa, di formazione all’autonomia e di residenzialità che tale Fondazione – sotto la responsabilità scientifica dell’Associazione AEMOCON (L’Emozione di Conoscere), fondata dal compianto professor Nicola Cuomo, a suo tempo Docente di Pedagogia Speciale dell’Università di Bologna -, sta portando avanti da anni per lo sviluppo di un Progetto Vita per i suoi soci con disabilità intellettiva: tra gli obiettivi, vi è la promozione di uno stile di vita collaborativo che favorisca un’interdipendenza e la creazione di una rete di scambio e di mutuo aiuto, intesa anche in termini di legami sociali e di sicurezza.
Interdipendenza e rete di aiuto, infatti, è ciò di cui necessitano molti giovani con deficit, per ambire a una possibile vita autonoma, con una gestione sempre più indipendente dei propri tempi e dei propri spazi, sapendo di poter contare su una rete di supporto attenta (ma anche discreta) che possa intervenire nelle differenti occasioni proposte dalla vita quotidiana, con i suoi imprevisti e le innumerevoli variabili.
Questa rete di supporto ricorda il concetto di “buon vicinato”, quella dimensione umana, di aiuto spontaneo, che nasce grazie al rapporto con l’altro. Nella società attuale, caratterizzata sempre più dalla diffidenza e dal timore verso il prossimo, dall’individualismo, dalla fretta e dalla frenesia, recuperare la dimensione relazionale rappresentata dal “buon vicino”, dal “buon coabitante”, rappresenta una risorsa potente, ancor più per quelle persone considerate “deboli” (persone anziane, con disabilità…), in quanto può offrire quella rete di supporto minimo, ma spesso indispensabile, per poter vivere in modo autonomo: piccole attenzioni, aiuti puntuali che però, se mancano, costringono spesso a rinunciare all’indipendenza e all’autodeterminazione a favore di una vita in luoghi di assistenza.

Molte persone, tra anziani e/o disabili, potrebbero o preferirebbero vivere nella loro casa, da sole o in compagnia, continuando a coltivare i propri interessi, le proprie abitudini, ma quando la loro autonomia o il loro stato di salute non sono totalmente sufficienti, sono costrette a vivere in Centri o in Istituti, dove spesso si perde la propria dignità, la propria qualità di vita, la propria capacità di autodeterminazione. In certi casi, però, sarebbero sufficienti interventi minimi di controllo o di aiuto/supporto in piccole cose (igiene, alimentazione, assunzione di medicinali, sicurezza della casa…), per garantire a queste persone un contesto di vita autonomo e allo stesso tempo sicuro, facendo riferimento a risorse relazionali, presenti o da attivare nel tessuto sociale, nel quartiere, nell’edificio, nell’abitazione; a reti di aiuto spontanee che si potessero creare grazie alle relazioni con i vicini, con le famiglie che, vivendo nello stesso edificio, si rendessero disponibili ad offrire il supporto necessario a seconda delle esigenze, ad essere un riferimento, oltre che di aiuto, anche affettivo, relazionale, sociale.
Ormai da anni si pone l’accento sul termine inclusione, quale evoluzione del concetto di integrazione. Noi concordiamo sul fatto che un valido intervento educativo non debba porsi come unico obiettivo quello di mettere in grado la persona con deficit di stare in mezzo agli altri (vedi passaggio dalle classi e scuole speciali alla scuola dell’integrazione), concentrando le azioni quindi sulla persona, sul singolo, ma debba estendere il proprio raggio di azione e coinvolgere l’intero contesto, in modo che sia esso stesso in grado di accogliere, includere e far sì che ciascuno, con le sue originalità, possa trovare un ruolo attivo in una coralità e interdipendenza con l’altro, abbattendo possibili barriere sociali, culturali, economiche e politiche.
In questa dimensione, pensiamo che un progetto di coabitazione possa rappresentare un potente strumento al servizio della pratica inclusiva: non, quindi, “l’appartamento per disabili in mezzo agli altri”, non una sorta di “vetrina” da cui osservare la disabilità che comunque rimane lontana, “altro da noi”, bensì la possibilità di modulare contesti in cui vivere e condividere le diversità, nel quotidiano, nella vita di tutti i giorni.
Il progettare interventi educativi che mettano in primo piano la dimensione relazionale e psico-affettiva determinata dal desiderio della persona di esistere e di comunicare, dal desiderio di stare con l’altro, è un concetto base del Metodo Emozione di Conoscere e un riferimento fondamentale in tutti quei progetti che l’Associazione AEMOCON sviluppa in collaborazione con Enti e Associazioni sul territorio nazionale e internazionale, tra cui appunto la Fondazione CondiVivere, la Cooperativa Sociale Sì si può fare e anche l’Associazione di Promozione Sociale De@Esi.

Il Progetto Casa Condivisa si propone dunque quale sperimentazione di una modalità di convivenza e condivisione tra persone con e senza deficit, come una tra le possibili risposte alle richieste di sempre maggiore autodeterminazione da parte delle persone con disabilità e delle loro famiglie.
In questa soluzione abitativa la dimensione relazionale diventa il fulcro: la condivisione di spazi, di oggetti, di momenti tra gli inquilini non esiste, se non all’interno di una forte rete relazionale, fatta di scambio, di aiuto reciproco, nel rispetto delle identità e originalità di ognuno.
L’iniziativa, come accennato inizialmente, ha preso il via a Milano, nel gennaio dello scorso anno, in un appartamento che si trova in centro città, di proprietà di Giacomo, un quarantenne con disabilità. L’appartamento stesso è stato messo a disposizione dalla sua famiglia per progetti abitativi e formativi della Fondazione.
Alessandra, una giovane architetta torinese (pare che “architetta” si possa dire), ha la necessità di trasferirsi a Milano per lavoro ed è alla ricerca di un alloggio. Incontra la Fondazione, familiarizza con i suoi soci e con i loro ideali e decide di aderire al progetto sperimentale, iniziando a condividere, per alcuni giorni a settimana, l’appartamento e la vita domestica con dei coetanei con disabilità che partecipano da anni a un percorso di vita autonoma ed indipendente della Fondazione.
Dopo qualche mese, si aggiunge anche Davide, un altro lavoratore “fuori sede”, che decide partecipare anch’egli a questa emozionante avventura.
I coinquilini oggi condividono alcuni momenti della settimana nell’appartamento, soprattutto serali e notturni.
Il lunedì, ad esempio, dopo una giornata fuori casa per occuparsi dei propri impegni lavorativi o formativi, Alessandra, Giacomo, Davide e Lorenzo s’incontrano verso le 19.30, decidono cosa mangiare, fanno la spesa o si dividono i compiti, cucinano, cenano, riordinano e infine vivono dei momenti conviviali prima di andare a dormire.
Il giorno seguente, verso le 7 suona la sveglia e dopo la colazione, ognuno è pronto per affrontare la propria giornata: Giacomo esce per raggiungere “Panini Durini”, un punto di ristorazione dove sta vivendo un periodo formativo nell’àmbito di un progetto di inserimento lavorativo della Cooperativa, Lorenzo rimane in appartamento per dei turni di pulizia, Alessandra e Davide si recano al loro posto di lavoro.
È possibile “entrare” ancor di più nell’esperienza della Casa Condivisa, ascoltando l’interessante intervista fatta ad Alessandra (a questo link), la quale confida le sue emozioni e il suo punto di vista, mettendo in evidenza come il convivere con ragazzi con disabilità abbia aiutato ad abbattere alcuni pregiudizi che inconsciamente portava con sé.

Alice Imola e Nicola Cuomo
Un’immagine del compianto Nicola Cuomo, già docente di Pedagogia Speciale all’Univeresità di Bologna, scomparso nel 2016, che fondò l’Associazione AEMOCON (L’Emozione di Conoscere). Al suo fianco Alice Imola, che ne è l’attuale vicepresidente

Il progetto di coabitazione occupa un posto di rilevanza particolare, tra tutti quelli che CondiVivere sta sviluppando insieme ad AEMOCON, in quanto rappresenta la concretizzazione di un sogno che dieci anni prima aveva spinto alcune famiglie a contattare il citato professor Cuomo, ad iniziare una collaborazione con lui e con il suo staff, a fare un viaggio nel sud della Spagna per conoscere l’esperienza di Vivienda Compartida, avviata dalla sua collega dell’Università di Murcia Nuria Illán Romeu, con la quale vi era in atto una lunga collaborazione sulle tematiche della vita indipendente.
Iniziò così un percorso di incontri formativi e stage residenziali e infine a decidere di dare vita, nel 2010, ad una Fondazione il cui nome ricorda e fonde insieme sia la sua storia che quel grande sogno da cui si era partiti e che si intende realizzare, vale a dire un “Dopo di Noi” di qualità, che rispetti i valori della dignità umana e dell’inclusione sociale.

Oggi a Milano, sotto la responsabilità scientifica di AEMOCON, all’interno di un “Percorso-Sistema” fatto di incontri formativi periodici e supervisioni di carattere pedagogico e psicologico, le persone con disabilità intellettiva e le loro famiglie, socie della Fondazione, possono partecipare a percorsi formativi di autonomia abitativa in appartamenti messi a disposizione dalle famiglie stesse.
Questi appartamenti sono denominati “Scuola delle Autonomie”, in quanto costituiscono una sorta di Università dove i giovani e gli adulti con disabilità possono potenziare intenzionalità e autodeterminazione vivendo il quotidiano e gli imprevisti che questo propone, con il supporto dei mediatori formati al Metodo Emozione di Conoscere.
L’approccio scelto propone il non considerare lo sviluppo umano in stadi, un itinerario lineare di capacità che si sommano, ma bensì come una sorta di dimensione di energia, un’ampia zona di sviluppo competenziale che va da dove la persona può o fa da solo a quello che potrebbe fare con l’aiuto degli altri.
È nell’aiuto degli altri, in questa opera di mediazione, che ritroviamo anche le potenzialità dell’educare. Un educare che partendo dai sia pur minimi “sa fare” della persona, ne individui le originalità e le immetta, supportandole, nei percorsi, nei processi dell’apprendere. In questo modo la persona può imparare non solo il contenuto, la performance, ma anche e soprattutto il procedimento, il pensiero che sta dietro a quell’azione, e di fronte a qualunque imprevisto può interpretare e conoscere ciò che sta accadendo; è un «imparare ad essere autonomi», nel senso di essere «capaci di governarsi da sé, sulla base di un’autentica intenzionalità originale», in una condizione di «non dipendenza da altri», cioè di «indipendenza».
Si tratta dunque, è opportuno sottolinearlo, di una “scuola per apprendere” e non di un “luogo di destinazione”. Questo, infatti, è un aspetto molto importante, in quanto non rappresenta un contesto in cui in inserire la persona, togliendo il “peso” alla famiglie, deresponsabilizzandole, ma al contrario un’occasione per costruire assieme a loro un percorso, che in itinere, “Durante Noi” vada a porre i tasselli giusti per un “Dopo di Noi” possibile e di qualità, qualunque sia il luogo fisico in cui realmente la persona andrà a vivere, nel rispetto delle sue originalità, dei legami sociali che è andata costruendo ecc.

Negli anni, il professor Cuomo e l’Associazione AEMOCON hanno realizzato diversi progetti sperimentali legati al tema dell’autonomia abitativa in altrettanti luoghi d’Italia, tra i quali troviamo ad esempio il CASA VAI, iniziato nel 2010.
L’idea della CoHousing all’interno dei progetti di vita indipendente per persone con disabilità può essere intesa come un’evoluzione di tante occasioni sperimentali avviate in anni di ricerca e collaborazione, che oggi si presenta per noi come grande opportunità per sperimentare un’altra modalità dell’abitare, altamente inclusiva, al momento pensata per quelle persone che hanno raggiunto buoni livelli di autonomia: un “diverso” modo di abitare dove il compagno di casa non è un educatore, con un’intenzionalità educativa, bensì un semplice coinquilino, una persona con cui si condivide la necessità di un alloggio, ma anche un desiderio di fondamentale importanza, quello di conoscere e condividere spazi, relazioni ed esperienze, in un arricchimento reciproco.

Alice Imola è dottore di ricerca in Scienze Pedagogiche e vicepresidente dell’Associazione AEMOCON (L’Emozione di Conoscere); Cinzia De Pellegrin è pedagogista; Elisabetta Bacciaglia è psicologa.

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