Questa storia del Ministero delle Disabilità mi dà da pensare e non poco. Qualcuno ci ha visto uno strumento per semplificare tutta la burocrazia che contorna questo mondo, e si è detto che coordinando interventi e strategie di azione rivolte a noi disabili, sarà anche più facile esercitare i diritti fondamentali di cui siamo portatori.
Sono ipovedente grave e conosco bene le complicazioni che ogni persona con disabilità deve affrontare per avere riconosciuti i propri diritti. Ho vissuto sulla mia pelle – potrei dire “sulle mie palpebre” – le ingiustizie di questo nostro sistema, so cosa significa lottare contro le logiche assistenzialiste e obsolete che tuttora governano gli iter di certificazione della disabilità. E purtroppo so anche molto bene che qualche centinaio di chilometri, ma a volte anche molto meno, possono essere decisivi per avere o meno una certificazione di invalidità o vedersi riconosciute misure di welfare e servizi vari. Una volta ancora voglio dirlo, sono grata alla vita che mi ha fatto nascere nella mia terra emiliana e sono felice di essere dove sono e come sono, anche quando non è facile. Questo almeno per fugare il dubbio che io stia brontolando a vanvera per sfogare rancori antichi.
Un Ministero delle Disabilità, dunque. Potrei essere contenta. E invece no.
Ho sentito dire: «Finalmente ci considerano, abbiamo un Ministero a parte!». E io rabbrividisco. Non riesco a sentirmi riconosciuta solo per il fatto che ora esiste un Ministero ad hoc. Non mi identifico nella mia disabilità e nemmeno nelle misure “speciali” di cui posso o devo avvalermi come persona con disabilità. Certo, se ci sono bisogni speciali, vanno riconosciuti, accolti e servono risposte adeguate. Ma tra le modalità di risposta non c’è solo quella della separazione e delle soluzioni “speciali”. Esiste sempre la possibilità di integrare le politiche per la disabilità in azioni più ampie, in disegni politici che sanno guardare alla comunità come un sistema accogliente, aperto e dinamico, tanto più che di frequente si nota che le misure adottate per agevolare i disabili finiscono per migliorare la vita di tutti. Se si parla di Universal Design per gli ambienti pubblici e metropolitani, perché non dovremmo poter parlare nella medesima chiave anche di politica e welfare?
Concretamente avrei preferito si dicesse: «Siccome ci sta a cuore l’inclusione sociale delle persone con disabilità, abbiamo pensato che per ogni Ministero ci sarà un disability manager che si prenderà cura dell’accessibilità di servizi e luoghi, che ricorderà ad ogni livello della struttura governativa che le informazioni devono essere accessibili e che quando progettiamo case, scuole, interni o servizi, dobbiamo tenere presente chi si muove, vede, sente, comprende o interagisce in modo diverso dallo standard».
Ancora di più, avrei voluto che si parlasse di Diversity Management in senso ben più ampio, per accogliere i bisogni diversi di ogni parte della comunità: è forse fantascienza? O è solo un’altra dimensione spazio-temporale? O semplicemente un’alternativa possibile?
Provo ad andare più in profondità.
Se è vero come è vero che la realtà funziona in base alla “legge dello specchio”, e che le strutture politiche e giuridiche sono il riverbero della società che le costruisce, mi chiedo quale idea di inclusione e di disabilità abbiamo come società o abbiano coloro che hanno pensato a questo. In altre parole, se abbiamo bisogno di un Ministero speciale, non sarà forse un segno di quanto siamo ancora lontani da una vera inclusione?
E poi c’è il valore simbolico e metaforico della realtà. Io nella scelta del Ministero ad hoc leggo un tentativo di ribadire che le politiche per la disabilità vanno considerate a parte rispetto al resto. E allora mi vengono in mente quelle boutade del tipo «meglio gli istituti per ciechi e le scuole differenziali piuttosto che l’integrazione scolastica per come è oggi». Attenzione, perché dalle misure speciali all’istituzionalizzazione e alla segregazione il passo è fin troppo breve.
Si dirà che ciò che conta non è il lato simbolico, ma quello concreto della faccenda, per cui ben venga se – a fronte di problemi relativi alla formazione, al lavoro, all’accessibilità, alla mobilità autonoma, alla salute e al benessere – avrò qualcuno a cui riferirmi. Ecco, ma allora qui farei qualche altro appunto.
Questo Ministero è chiamato ad occuparsi non solo di disabilità, ma… di famiglia. È lecito chiedersi quale sia il nesso tra le due cose. Non sarà che anche questo abbinamento tradisce il fatto che se nel nostro Paese non ci fossero le famiglie ad occuparsi delle persone con disabilità, i tempi sarebbero molto, ma molto duri per tanti di noi e soprattutto per coloro che vivono con un deficit molto grave?
In questo panorama, cosa ne facciamo dell’autodetermniazione di chiunque diventi adulto, e che per esserlo davvero, ha necessità di smarcarsi dalle cure genitoriali? Cosa ne facciamo di quella libertà ad autodeterminarsi e al diritto all’autorealizzazione che può diventare reale solo se sono soddisfatti i bisogni primari dell’individuo?
E ammettiamo pure che si implementino le politiche e si mettano in piedi servizi capaci di rispondere ai bisogni di nutrizione e sopravvivenza. In questo ottimistico caso, potremmo guardare liberamente al bisogno di realizzarsi come soggetti unici e irripetibili, con tutti i propri talenti e peculiarità, ciò che è un bisogno universale, al di là di disabilità o diversità? Per dare il meglio di sé, infatti, e autorealizzarsi, ognuno di noi ha bisogno di contesti aperti, pronti ad accogliere ogni peculiarità e ogni unicità, possibilmente senza giudizi né pregiudizi di sorta.
Nel cammino autentico di autorealizzazione di ognuno rientra anche la sfera affettiva – e i disabili non fanno eccezione -, ovendo quindi ampliare lo sguardo alle altre prospettive della diversità umana. Già non è scontato riconoscere, in un panorama culturale come quello italiano, l’importanza della vita affettiva e sessuale delle persone con disabilità, e ancor meno scontata è la possibilità di vivere questa dimensione di vita quando si vive in famiglia e si dipende dalle cure genitoriali. Cosa accade se poi una persona con disabilità si orienta verso scelte omosessuali? Dov’è l’apertura di cui c’è bisogno per viversi serenamente, identificandosi eventualmente nell’ottica LGBTI [Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali e Intersessuali, N.d.R.]? Dov’è questa apertura se chi – in teoria – dovrebbe prendere a cuore la causa delle persone con disabilità, ha opinioni apertamente omofobe e rinnega una realtà come questa?
Nel cammino di autorealizzazione di ciascuno ha un peso forte anche il legame con le proprie radici culturali. Mi chiedo allora cosa accadrebbe se si prendesse in considerazione l’eventualità di una persona con disabilità che non nasce in Italia ma viene da lontano, magari da uno di quei Paesi in cui i diritti umani sono violati. Quale futuro, dunque, per chi arriva nel nostro Paese da migrante, con una disabilità? Quale tutela per chi – disabile – ha origini diverse?
Devo pensare che il “bonus disabili” al Ministero se lo potranno giocare solo quelli che rientrano nello schema della famiglia tradizionale, dell’eterosessualità e dell’Italianità? Chi sarà a decidere chi può e chi non può? E ancora e più di tutto: perché dovrebbe farmi sentire bene il rischio che ci sia da distinguere tra “disabili di serie A” e “disabili di serie B”?
E al di là, infine, dei disabili, come posso sentirmi bene e in pace se comunque, pur potendo eventualmente rientrare – per ora – nella “serie A”, devo vivere in una società che in modo più o meno palese discrimina altri?
Sono convinta che l’altro è lo specchio di noi, che l’altro è me. Se una parte della società è discriminata, non accolta, giudicata e respinta, come posso sentirmi io stessa al sicuro?
Mi tornano in mente le parole di Bertolt Brecht: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
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