Sollecitare la Regione Lombardia a organizzare una Conferenza Regionale sulla salute mentale. Riportare l’equilibrio nelle risorse, riducendo il ricovero ospedaliero e potenziando le attività sociali territoriali. Stabilizzare il personale precario, evitando il susseguirsi di cambiamenti che impediscono la maturazione di esperienze, competenze e l’instaurarsi di relazioni costruttive e durature con gli assistiti. Istituire posti letto per minori nelle Province in cui mancano e dotare le UONPIA (Unità Operative di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) del personale necessario perché siano garantiti i percorsi di presa in cura dei minori e delle famiglie: sono alcune delle richieste presentate alla Regione Lombardia dalla Campagna per la Salute Mentale, dalla RUL (Rete Utenti Lombardi), dall’URASAM (Unione Regionale Associazioni per la Salute Mentale), dal Forum Salute Mentale, dalla LEDHA (la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), dall’Alleanza delle Cooperative Italiane (Lombardia Welfare) e dal Forum del Terzo Settore della Lombardia, tutte contenute nel documento intitolato La situazione della salute mentale in Lombardia (disponibile integralmente a questo link).
Secondo gli estensori del documento, a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180, l’applicazione della riforma fortemente voluta dallo psichiatra Franco Basaglia, quella riforma è avvenuta solo in parte e “a macchia di leopardo”, sia a livello regionale che territoriale. «Oggi – scrivono – è necessario reinterpretare e gestire la questione dell’esistenza e della sofferenza delle persone in rapporto a una società che è profondamente cambiata. Occorre costruire là dove manca e rinforzare là dove esiste un patto cittadino tra le tante forze coinvolte in questo lavoro comune: la politica, le istituzioni, i servizi, le persone bisognose di presa in cura, le famiglia, la cittadinanza».
Tra i punti fondamentali, viene evidenziato innanzitutto quello delle risorse economiche. La Regione Lombardia, infatti, riserva alla salute mentale circa 500 milioni di euro l’anno, una cifra inferiore al 3% del Bilancio Sanitario Regionale e ben al di sotto della quota minima necessaria del 5% raccomandata dal Ministero della Salute. Inoltre, il 70% di questo budget è assorbito dai 4.250 posti letto di residenza, cui si aggiungono i posti letto in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura). Ben poco resta quindi per i progetti di vita indipendente, per i percorsi di inclusione sociale, per il sostegno familiare, ovvero per una presa in carico integrale e di qualità che possa prevenire l’acuirsi delle situazioni più gravi e sviluppare percorsi di accompagnamento per il possibile recupero delle persone a una vita indipendente.
In parallelo, la mancanza di investimenti ha determinato precarie condizioni contrattuali e lavorative degli operatori della salute mentale, nonché un’insufficiente formazione professionale e una fragile cultura dei diritti delle persone prese in carico.
Esemplificativo di questa situazione è l’abnorme uso dei TSO (Trattamenti Sanitari Obbligatori), per l’incapacità/impossibilità di prevenire e lavorare sulla dimensione relazionale e sulla continuità di cura di fronte a particolari situazioni di gravità, trasformando così il TSO stesso da strumento eccezionale di cura in strumento ordinario di controllo.
E ancora, a destare la preoccupazione delle Associazioni vi è pure la sperimentazione, da parte delle Forze dell’Ordine, dell’uso di pistole “Taser”, dispositivi che producono scariche elettriche capaci di paralizzare la persona. Si tratta di un’arma giudicata di tortura e potenzialmente mortale dagli organismi internazionali dell’ONU: dal 2000 ad oggi, negli Stati Uniti, 153 persone sono morte a seguito dell’uso del “Taser” e in nove casi su dieci si trattava di persone disarmate, in quattro casi su dieci di persone con disturbi mentali.
«In Lombardia – dichiara don Virginio Colmegna, presidente della Campagna Salute Mentale – è stato fatto molto per l’inclusione delle persone con disagio psichico, ma molto resta ancora da fare. Realizzare la vera deistituzionalizzazione voluta da Basaglia significa, infatti, che la comunità non delega la sofferenza di un suo membro, ma se ne fa carico, attivando le risorse della persona, le sue relazioni affettive e parentali e le energie della comunità stessa. Affinché questo sia possibile, occorre innanzitutto riaffermare e promuovere diffusamente una cultura della salute mentale, che permetta di superare i pregiudizi e le paure che ancora alimentano stigma e marginalizzazione dei malati. Serve poi aumentare le risorse economiche e le risorse umane, che devono essere indirizzate verso il cosiddetto budget di cura, per realizzare percorsi di riabilitazione e inclusione sociale che tengano conto delle dimensioni dell’abitare autonomo, del lavoro, della relazione».
«Occorre un coinvolgimento pieno delle Istituzioni – aggiunge Alessandro Manfredi , presidente della LEDHA -, a partire dai Comuni, per sostenere le famiglie che, troppo spesso, si sentono sole e abbandonate. Dove il peso della malattia mentale ha profondamente segnato, se non distrutto, le relazioni tra congiunti o tra coniugi. Oggi, infatti, non sono solo i singoli malati che stanno male, ma intere famiglie che sono in crisi e che soffrono». (I.S. e S.B.)
Per ulteriori informazioni e approfondimenti: Giovanni Merlo (giovanni.merlo@ledha.it); Ilaria Sesana (ufficiostampa@ledha.it).
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