Viviamo in una società che si rifiuta ostinatamente di affrontare il tema della morte e che ha impostato la propria organizzazione fingendo che non esista o che, quanto meno, abbia a che fare il meno possibile con la vita.
Una delle diverse e spesso sciagurate conseguenze di questa scelta radicale è che a molte persone – o per lo meno a troppe – càpita di morire sole in luoghi che non hanno niente a che fare con la loro intimità, come le stanze degli ospedali.
Quando si parla di disabilità fisica, si parla di corpi fragili, alcuni dei quali possono “consumarsi” prima del tempo. Il tema della morte, dunque, dovrebbe essere a maggior ragione affrontato quando si parla di disabilità. Eppure non è così. Anzi, a volte, parlare di morte in questo àmbito diventa ancor più delicato, difficile, devastante. Di recente lo si fa soprattutto in termini bioetici, muovendosi in un territorio dove predomina una feroce battaglia sulla demarcazione del confine tra la vita e la morte.
Questa volta, invece, vogliamo presentare l’opera – letteraria e materiale – di una famosa autrice svizzera, considerata la fondatrice della psicotanatologia. Tanatos, in greco, vuol dire morte. Lei si chiama Elizabeth Kübler-Ross, ha dedicato la propria vita ad accompagnare i malati terminali ed è morta, a sua volta, nel 2004. Uno dei libri che l’hanno resa celebre si intitola La morte è di vitale importanza, in Italia pubblicato dalla Casa Editrice Armenia. Ci sentiamo di suggerirne la lettura, non tanto per la seconda parte, che si dedica al racconto di testimonianze di premorte – argomento che molti inquadrano all’interno delle cosiddette “visioni new age” o che comunque considerano scientificamente non attendibile – quanto per la prima.
Sulla premorte diciamo qui soltanto che Kübler-Ross conobbe diverse persone arrivate sul punto di morire – il battito cardiaco si era fermato e il respiro cessato – ma che non erano morte, magari salvate dal pronto intervento dello staff medico. Alcuni di costoro le confidarono di ricordare una sequenza di eventi che, pur risultando legati alla specifica provenienza culturale (ad esempio in riferimento alla visualizzazione di personaggi della propria iconografia religiosa o di parenti defunti), erano simili tra loro.
Ma passiamo ora ad approfondire la prima parte del testo, dedicato al periodo di avvicinamento alla morte e rivolto in particolare a coloro che si trovano accanto a una persona che sta per morire.
Stare vicino a chi sta per morire
La studiosa sostiene che le persone che si avvicinano alla morte sono consapevoli della fine imminente, anche quando fingono che non sia così e per questo nel libro suggerisce di affrontare con loro la verità e non di girarsi dall’altra parte.
Ecco cosa scrive, rivolgendosi a chi per lavoro si occupa di assistere i malati terminali: «Magari il paziente ti dirà, per esempio: “Non ci sarò, al tuo compleanno in luglio”. Sarà meglio che tu comprenda il messaggio senza bisogno di commenti tipo “Oh, non dire così. Vedrai che guarirai”, perché interromperesti la comunicazione tra te e il paziente; capirebbe che non sei pronto ad ascoltare, gli tapperesti letteralmente la bocca e lui si sentirebbe molto solo. Ma se non assumi un atteggiamento del genere e riconosci il fatto che internamente lui sa di essere vicino alla morte, allora ti siederai, lo toccherai e gli dirai: “C’è qualcosa che posso fare per te?” o una frase simile».
Non tutte le persone hanno la lucidità di vedere con chiarezza l’imminenza della propria morte. Chi sta loro accanto può aiutarle in questo senso. A questo proposito è interessante la parte del libro dedicata all’interpretazione del linguaggio simbolico attraverso cui si esprime l’inconscio.
Rifacendosi a uno schema interpretativo proposto dallo psichiatra e psicanalista svizzero Carl Gustav Jung, Kübler Ross invita i morenti a fare dei disegni che poi interpreta in questo modo: il quadrante inferiore a sinistra rappresenterebbe la visione del proprio passato, quello superiore a destra la visione del presente, quello inferiore a destra il futuro immediato e infine il quadrante superiore a sinistra il concetto di morte e quello che ci si aspetta dal futuro.
Abbandonarsi o resistere?
Pare che morire richieda un certo grado di rilassamento, di abbandono. Occorre cioè lasciarsi andare, non restare più attaccati alle cose e alle persone della vita.
La studiosa svizzera, a questo proposito, racconta ad esempio di una madre malata in modo gravissimo che ha continuato per anni a restare sul punto di morte, trascinando un’esistenza fatta di dolore e fragilità. Ha “tenuto duro” fino al compimento del diciottesimo anno del figlio, quando questi è uscito di casa e ha iniziato una vita autonoma. Prima, la donna aveva motivo di temere che il marito abusasse di lui.
Chiaro che una domanda che ci si pone a questo punto è: è importante continuare a vivere a tutti i costi, e quindi è importante cercare per ognuno un motivo per tenerlo attaccato alla vita? Oppure a un certo punto bisogna distaccarsi dalle cose della vita? La risposta non può che essere intima e personale. Certo è che, da una parte, ci sono morenti che muoiono di notte, in ospedale, da soli, quando i parenti sono andati a casa a dormire, quegli stessi parenti che di giorno, al loro capezzale, li supplicano di restare in vita. Ci sono diverse testimonianze in questo senso e anche il libro della psicotanatologa conferma la tendenza con l’esempio di una bambina che fatica a morire e un giorno il fratello, esasperato, le dice fra i denti che non ce la fa più, che vuole che lei muoia. La bambina si mette a piangere e dice di volerlo anche lei, ma di non riuscire perché la madre ogni giorno le chiede di resistere.
D’altra parte bisogna anche dire che spesso le persone pronte a morire non se ne vanno perché trattenute da “questioni irrisolte”. Questo è un altro punto interessante del libro di Kübler Ross e gli esempi sono molteplici, come quello della bambina cui il sacerdote ha detto che in paradiso va solo chi ama Dio sopra ogni cosa e siccome lei sente di amare i genitori sopra ogni cosa, teme che morendo andrà all’inferno.
Chi è accanto al morente ricopre dunque questo particolare ruolo, quello di aiutarlo a restare attaccato alla vita – intendendo il valore della vita come assoluto e opposto, in modo del tutto antitetico a quello della morte – o al contrario di aiutarlo ad abbandonarsi, in questo secondo caso anche affrontando insieme eventuali questioni irrisolte, come il desiderio di parlare con qualcuno o di compiere una specifica azione. Moltissime persone, naturalmente, non desiderano essere aiutate né in un senso né nell’altro.
Il dolore e il lutto da elaborare
Ecco un’esortazione alla vita che la studiosa a un certo punto fa ai suoi lettori, quella cioè di vivere senza tenere questioni in sospeso: «Se tua suocera, cui non parli da dieci anni, muore domani, spenderai una fortuna in fiori, facendo un favore solo al fioraio. Ma se domani decidi che dieci anni di punizione sono sufficienti, allora potresti andare a cogliere tu stesso un mazzo di fiori, per poi offrirglieli di persona. Non aspettarti però che lei ti voglia bene o ti ringrazi. Potrebbe addirittura tirarteli in faccia, i fiori, ma tu avrai comunque fatto la tua offerta di pace. Così, se lei dovesse morire il giorno dopo, proverai dolore ma non avrai nessun lutto da elaborare. Il dolore è naturale, è un dono di Dio. L’elaborazione del lutto, invece, è: “Se solo io avessi…”».
Nel libro viene indicata una linea di demarcazione tra il dolore che si prova per la perdita di una persona cara e l’elaborazione del lutto. La seconda pare essere un’esperienza molto più faticosa e lunga, legata soprattutto a sensi di colpa per azioni che non si sono compiute e frasi che non si sono dette, ma anche al non aver affrontato la verità del momento.
Sempre secondo la visione di Kübler Ross, pare infatti fondamentale prendersi cura del morente o comunque prendere coscienza dello stato in cui si trova e riuscire a trovare il modo di salutarlo, specie per i bambini che stanno per diventare orfani o stanno per perdere un fratello. Così non dovranno affrontare il mistero della scomparsa senza poter ricorrere a immagini e ricordi specifici.
Il prolungamento artificiale della vita
Concludiamo questa presentazione del lavoro della studiosa svizzera con una sua frase che potrebbe essere utile ad alimentare altri tipi di dibattiti, quelli che riguardano la bioetica e le questioni del fine vita: «Nei miei vent’anni di lavoro con pazienti terminali, non ne ho mai avuto uno che non sapesse che stava per morire. Compresi i bambini di cinque anni. Se riesci a sentire quando ti dicono che sono pronti a morire, se i genitori non proiettano su di loro i propri bisogni, se il medico accetta che i pazienti sappiano più cose su se stessi di quante non ne sappia lui, allora non avrete mai il problema del prolungamento artificiale e inutile della vita».
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