Cos’è e quanto costa la libertà

di Simonetta Morelli*
«Il 18 dicembre - scrive Simonetta Morelli, rivolgendosi a Franco Bomprezzi - sono quattro anni che sei uscito dalle nostre vite. Che cosa avresti detto e fatto in questo momento in cui la disabilità non è più oggetto di dibattito culturale, e in cui essa rischia di tornare a rappresentare una condizione di inferiorità da sostentare come si può, finché si può? Oggi vorrei che entrassi nel presepe e ti portassi un po’ in giro il Bambinello sulla sedia a rotelle, tra lucine, pastori, fiumi di stagnola, pecore e cammelli. E che vi diceste, occhi negli occhi, cos’è e quanto costa la libertà»
Franco Bomprezzi
Franco Bomprezzi (1° agosto 1952-18 dicembre 2014), che fu direttore responsabile del nostro giornale «Superando.it» dall’avvio delle pubblicazioni fino al giorno della sua scomparsa

Non ti ho pensato più, lo ammetto, perché mi è scomoda la tua morte, Bomprezzi. Si fa presto a dire «ti voglio bene», ma alla fine prevale sempre un pizzico di egoismo, quello che in alcuni casi ti salva. Sono fuggita altrove per non sentirmi così desolata di fronte alla tua assenza. Ma in questi giorni ti ho pensato. È accaduto, semplicemente, senza un motivo preciso. Forse sei tu che hai preso la rincorsa e sei venuto a trovarmi.

Il 18 dicembre sono stati quattro anni che sei uscito ineluttabilmente dalle nostre vite. E questo ci ha cambiati, forse anche più di quanto potessimo immaginare. Da persone adulte abbiamo elaborato il dolore, ma non siamo stati capaci di accettare che non ci sei più, che il silenzio risponde alle nostre chiamate. Siamo rimasti inchiodati al gelo di quella mattina. Facciamo finta che il tempo sia un gran signore, ma la verità è che la tua mancanza ci lascia senza punti di riferimento. E ci fa piccini, buoni a rimpiangerti. E a usarti come bandiera.
E invece basta aprire uno qualsiasi dei tuoi pezzi, ovunque siano pubblicati, e la tua scrittura vive, palpita, sorprende e ancora emoziona: è così potente che sembra di sentire la tua voce. Ci hai lasciato un patrimonio che abbiamo congelato.

Ma i miei pensieri per te in questi giorni sono leggeri, niente di drammatico, impegnativo o troppo emozionante. Ti ho sentito presente e ho lasciato che mi accompagnassi per un po’.
Mi sei venuto in mente quando ho letto che a Bologna hanno trasformato il testo dell’ Anno che verrà in luminarie natalizie per una via della città. La celeberrima canzone di Lucio Dalla qualcuno pensa sia una preghiera; che l’amico «molto lontano» sarebbe Gesù a cui Dalla confida le angosce del presente e le speranze per il futuro, concretizzate in un atteggiamento di attesa operosa: «L’anno che sta arrivando, fra un anno passerà. Io mi sto preparando, è questa la novità».
Forse ciò che veramente mi colpisce è il contesto che accomuna quegli anni ai nostri. L’anno che verrà, pubblicata nel 1979, è la narrazione poetica della quotidianità negli “anni di piombo”: il terrorismo, i problemi economici del Paese, l’immaginazione di un mondo con meno barriere mentali; e il ritorno dal sogno con l’accettazione di ciò che la realtà è in quel momento. Nella canzone questi passaggi ci sono tutti. Ma sembra chiudere un’epoca di lotte e di fatica, anche intellettuale. Seguiranno in effetti gli Anni Ottanta, opulenti e più disimpegnati.

Anche oggi sembra che siamo a una svolta epocale, con un Governo a vocazione assistenzialista fortemente votato dai cittadini che non sanno più nemmeno cosa chiedere, tanti e profondi sono i bisogni. Ma in questo contesto di semplificazione politica, la disabilità non è più oggetto di dibattito culturale, condizione paradigmatica dell’esistenza di tutti; rischia invece di tornare a rappresentare una condizione di inferiorità, da sostentare come si può, finché si può.
È stato istituito addirittura il nuovo Ministero per la Famiglia e le Disabilità, che oltre ad essere sgradevole per il senso di ghettizzazione che rende, non fa che fortificare l’idea che questo Governo possa spostare l’attenzione dalle persone con disabilità alle loro famiglie, che vanno sì sostenute, ma non anteposte ai membri con disabilità. Di loro lo Stato dovrebbe occuparsi a prescindere dalla famiglia, favorendone l’inclusione e l’autonomia.
Perché i costi di un altro Ministero e i tempi lunghissimi per l’elaborazione di un Codice (una sorta di testo unico) per la Disabilità? L’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, nato nel 2009 con la legge di ratifica della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, era trasversale a tutti i Ministeri e tutti li coinvolgeva a favore dei cittadini con disabilità; e non “dei disabili” come categoria a parte.
Tu ci tenevi moltissimo e sulle pagine di InVisibili, il blog del «Corriere della Sera.it», ne spronavi i membri a volare alto: «Provate a chiedere di essere ascoltati non solo dagli addetti ai lavori, ma da chi davvero ha il potere di inserire la disabilità nelle grandi scelte di riforma e di cambiamento del Paese. Provate a far capire che siamo un mondo di persone in gamba, capaci, competenti, pronte alle sfide di una società in trasformazione rapida. Provate ad avere orgoglio. Anche per chi ormai sembra rassegnato».

Eppure molte persone con disabilità plaudono a questi cambiamenti come se nulla fosse accaduto negli ultimi vent’anni. Come avresti commentato e pensato tu, da sessantenne che aveva vissuto tempi più bui e “ignoranti”?
Tutte mie supposizioni, certo. Ma ho paura, Bomprezzi, di scoprire che tutto ciò possa essere vero. Se così fosse, avremmo fatto un gran balzo indietro che cancella almeno quarant’anni di fatiche.
Ed è proprio qui che ci manchi, Franco. Che avresti detto, che avresti fatto? Di sicuro da giornalista avresti indagato a fondo e cercato il confronto aperto. E avresti alimentato il dibattito pubblico, altro che lavoro dietro le quinte!
La tua passione politica sapeva ascoltare e interpretare gli avversari. L’ironia era un’arma raffinata; il sarcasmo, quando ci voleva, metteva in evidenza i limiti altrui senza mai essere offensivo. Avevi una visione prospettica profonda e chiara. E una rara finezza d’analisi.

Che fine faremo? Se il presente è instabile, normalmente ci si adopera perché il futuro sia più sostanzioso. Invece oggi la tendenza è a finire: se il presente è instabile, lasciamolo morire e inventiamoci una cosa nuova. Dimenticandoci, però, che sugli scaffali di questo consumismo politico ci sono le vite degli altri.
E che taglio dare adesso a notizie di vite così faticose e belle, terribili e sorprendenti? Vite che si accorciano velocemente, forze che si assottigliano: «Siamo querce che si son fatte salici», ha scritto Susanna Tamaro nel suo ultimo libro dedicato alla memoria di Pierluigi Cappello. Lei con la sindrome di Asperger, lui paraplegico.
Caro Franco, eri l’unico con cui avrei potuto parlare della morte. Non so perché ho l’impressione che tu te la sia giocata con qualcuno lassù. E hai vinto facendo finta di perdere: accettando che era giunto il momento di passare oltre. Con deroga a tornare, quando i nostri cuori ti avrebbero chiamato.

Fra qualche giorno nascerà il Bambinello. Chiedi il permesso di entrare nel presepe e di portartelo un po’ in giro sulla sedia a rotelle tra lucine, pastori, fiumi di stagnola, pecore e cammelli. Se riesci, faccelo vedere, mentre vi dite occhi negli occhi cos’è e quanto costa la libertà.

Il presente testo è già apparso in InVisibili, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Ci manca Bomprezzi per un vero dibattito (ormai sparito) sulla disabilità”. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Più ancora intellettuale che non semplice giornalista di lungo corso, persona con grave disabilità motoria, impegnato per anni anche nel mondo dell’associazionismo, Franco Bomprezzi (1° agosto 1952-18 dicembre 2014) è stato direttore responsabile del nostro giornale «Superando.it», dall’inizio delle pubblicazioni e fino al giorno della sua scomparsa.
Riprendiamo qui di seguito uno dei suoi ultimi testi, intitolato semplicemente Liberi di volare, che più di mille parole “racconta Franco” nel migliore dei modi possibile:

«Sì, c’è anche il numero del letto: 15. Un piccolo progresso dal letto 14 dell’Unità Spinale di Niguarda di Milano, da dove scrissi qualche anno fa piccole cronache di degenza e di umanità. Questa volta mi trovo al Centro Clinico NEMO, sempre al Niguarda. Ho scelto di ricoverarmi qui per capire bene che cosa stesse succedendo al mio organismo, che non sta funzionando a dovere, e non solo per le conseguenze di un’embolia polmonare. Avevo ragione, c’era altro, problemi per così dire di funzionamento nientemeno che del pancreas e del fegato. Lo hanno capito in poche ore di day-hospital e quindi non mi hanno lasciato andare a casa, ma sono stato accolto subito in questo reparto luminoso, caldo, dai colori pastello della speranza e della serenità: i colori del pesciolino Nemo. Perché qui c’è una rete che spinge verso l’alto, con affiatamento e competenze elevatissime.
Dicevo del numero del letto. In realtà la camera nella quale mi trovo ha un nome: Liberi di volare, e dentro è piena di fumetti che rappresentano aerei in volo, e persino sul pavimento sono tracciati aeroplanini color arancio.
È un centro specializzato nato dall’incrocio di tante volontà e di personaggi tenaci: Alberto Fontana, Mario Melazzini, Renato Pocaterra, come dire UILDM e Telethon, AISLA, Famiglie SMA (atrofia muscolare spinale). Il tutto convergente nella Fondazione Serena, un modo concreto di coniugare ricerca e assistenza, e offrire un servizio di eccellenza a tante famiglie che non avevano fino a pochi anni fa un riferimento unico al quale rivolgersi con fiducia.
Ecco, è qui che sto combattendo una nuova battaglia per ritrovare salute e qualità della vita. Coccolato dalle OSS e dagli infermieri, curato con attenzione certosina dall’équipe medica, sento già i primi segni della riscossa. Ma sono anche giorni nei quali il pensiero è davvero libero di volare. Il pensiero di ciò che ho fatto sino ad ora, di ciò che vorrei continuare a fare a lungo, l’analisi serena dei progetti che mi spingono a guarire in fretta, perché c’è tanto da fare.
In un Paese nel quale sembra che nulla funzioni, ho trovato la conferma che non è vero, non c’è da disperarsi. Volevo per ora condividere con voi questa mia sensazione di serenità. Ne scriverò ancora.
Franco Bomprezzi».

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