Ho seguito con una certa indulgenza, in questi giorni, il dibattito sulle quote rosa nei Consigli d’Amministrazione, sulla legge, sulle obiezioni, sui tempi di una norma che, se tutto va per il verso giusto, si farà sentire a partire dal 2015.
Non mi sono appassionato, non perché non condivida, fermamente, il convincimento che ancora oggi, in Italia, assistiamo a una masochistica discriminazione delle donne nel mondo del lavoro, e ai vertici aziendali in particolare. Anzi, sono certo che quasi sempre l’approccio culturale, pragmatico, tenace, combattivo, serio delle donne in ogni campo – dal sociale al profit, alla politica – è di gran lunga più creativo, innovativo e capace di produrre valore aggiunto rispetto al valore medio della componente maschile, che dà per scontato il diritto ad arrivare, a fare carriera, a dirigere, a decidere. Giungendo, per altro, quasi sempre al massimo livello di incompetenza, come, se non erro, viene opportunamente stabilito dal cosiddetto Principio di Peter.
Il problema è che la discriminazione è generalizzata, e lo sanno benissimo le persone con disabilità, che pure potrebbero godere, si fa per dire, di una quota riservata per legge [la Legge 68/99, N.d.R.], allo scopo di favorire l’accesso al lavoro, in base al principio della valorizzazione delle capacità: non più collocamento obbligatorio, ma “mirato”, come dice appunto quella legge, come dovrebbe giustamente avvenire.
Eppure le cifre parlano chiaro: legge inapplicata, disoccupazione delle persone con disabilità a livelli mai visti, una deriva accentuata dalla crisi e dagli accordi sindacali inopinatamente sottoscritti, senza neppure pensare a queste specifiche conseguenze.
Il punto focale, dunque, secondo me, rimane culturale: fino a quando la società nel suo complesso non valuterà ogni persona, uomo o donna, giovane o anziano, disabile o no, per quello che vale, per quello che può dare, per le sue capacità, cioè fino a quando non si comprenderà che la risorsa fondamentale per lo sviluppo economico è la persona, non il capitale o il profitto, nessuna legge, per quanto opportuna e promulgata con le migliori intenzioni e il più ampio consenso, potrà mai essere efficace.
Le donne oggi non dovrebbero dimostrare nulla, e invece ogni giorno devono spiegare perché hanno bisogno di tempi diversi, perché se vogliono costruire e mantenere una famiglia, questo obiettivo non deve ostacolare il legittimo obiettivo di essere collocate correttamente e remunerate giustamente in qualsiasi ambito lavorativo. E lo stesso dovrebbe valere per le persone disabili. Invece, sappiamo bene quanta fatica si faccia, ogni giorno, a ribadire concetti che sembrerebbero ovvi, perfino scontati, nel 2011.
Viviamo tutti in quota, sull’orlo del burrone. Facciamo fatica, siamo stanchi, poi ci riprendiamo, ripartiamo. Sarebbe bello fare questo percorso davvero insieme, uomini e donne, senza “riserve indiane”, senza pregiudizi, senza discriminazioni. Solo perché è giusto, solo perché è meglio per tutti.
*Testo apparso anche in «FrancaMente», il blog senza barriere di Vita.blog, con il titolo Vivere in quota, qui ripreso con alcuni adattamenti.
Articoli Correlati
- L'integrazione scolastica oggi "Una scuola, tante disabilità: dall'inserimento all'integrazione scolastica degli alunni con disabilità". Questo il titolo dell'approfondita analisi prodotta da Filippo Furioso - docente e giudice onorario del Tribunale dei Minorenni piemontese…
- Il Disegno di Legge Zan e la disabilità: opinioni a confronto Riceviamo un testo dal sito «Progetto Autismo», a firma di Monica Boccardi e Paolo Cilia, che si riferisce, con toni critici, a un contributo da noi pubblicato, contenente due opinioni…
- L'ONU e le persone con disabilità Si avvicina la sesta sessione di lavoro del Comitato incaricato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite di elaborare una Convenzione sulla Promozione e la Tutela dei Diritti e della Dignità delle Persone…