Ormai è passato più di un mese e mezzo dal nostro rientro dagli Emirati Arabi [in occasione dei Giochi Mondiali Estivi di Abu Dhabi di Special Olympics, il movimento internazionale dello sport praticato da persone con disabilità intellettiva e/o relazionale, N.d.R.], ma quel sogno è ancora vivissimo nella nostra mente e nei nostri cuori.
Abbiamo aspettato a raccontare la nostra fantastica esperienza perché speravamo di poterla completare, come hanno fatto in molti, con le foto ufficiali del saluto delle nostre Istituzioni locali. Sarebbe stata la ciliegina sulla torta, ma per le Istituzioni locali tiburtine, nonostante la medaglia di bronzo ai Mondiali e le moltissime medaglie vinte da tutto il team azzurro, evidentemente lo sport non è fra gli interessi primari, o forse non lo è quello “speciale”. Facile che sia così, visto il poco interesse mostrato sul tema “disabilità” negli ultimi anni.
Ma non ci interessa, fortunatamente, invece, in tutto il resto d’Italia e nel Mondo, i nostri atleti sono stati accolti in maniera trionfale e la gioia per tanti applausi soffoca il silenzio di alcuni.
Abbiamo sempre considerato lo sport come un potente mezzo di integrazione sociale e di inclusione, oltre che un validissimo strumento di crescita e un enorme ausilio per la conquista dell’autonomia. Questa esperienza è stata l’ennesima dimostrazione che Special Olympics non è solo un’organizzazione sportiva, ma che si tratta della più grande “palestra di vita”, dedicata all’inclusione di persone con disabilità intellettiva.
Gabriele [figlio dell’Autrice, giovane con disabilità intellettiva, N.d.R.] è partito per Abu Dhabi senza familiari al seguito, come del resto tutti gli altri atleti che portavano i nostri colori, e ha gestito il suo tempo come ogni altro atleta al mondo chiamato a vivere una esperienza così importante. Allenamenti, riunioni di team, incontri istituzionali e tempo libero insieme ad amici e coach, alla scoperta del fantastico Paese che li ha ospitati. Un’esperienza che ci raccontava, sempre con enorme entusiasmo, negli scambi su Whatsapp, a cui allegava foto sue e dei suoi compagni di squadra.
È partito con il cuore carico di gioia. Coronare il sogno per cui ci si allena da anni ti dà una forza e una spinta emotiva talmente grande, da farti sentire bene come non mai e quel sogno lui lo stava realizzando.
Lo abbiamo raggiunto dopo una settimana, per vivere otto giorni di sport e di avventura in un Paese molto accogliente, spettatori di uno degli spettacoli più belli del mondo, i Giochi Mondiali di Special Olympics. Lo abbiamo visto, come era giusto che fosse, solo in piscina e abbiamo incontrato un ragazzo cresciuto, più sicuro di sé, più attento e soprattutto molto concentrato nella bellissima esperienza che stava vivendo, ed è giusto così: non capita certo tutti i giorni di “vivere un sogno da campioni”!
Da parte nostra, perderci per dieci giorni nel mondo coloratissimo di un’esperienza mondiale con Special Olympics è stato una cosa fantastica. Abbiamo parlato tutte le lingue del mondo, anche se oltre alla nostra conoscevamo solo un po’ di inglese, perché ci capivano, nonostante nazionalità, usi e religioni diverse. C’era qualcosa che ci univa in maniera profonda, quel simbolo e quella voglia di cambiare il mondo, per i nostri figli e per noi, che solo qualcosa di veramente grande e forte ti può trasmettere.
Ed è li che ho compreso, veramente a fondo il significato del “sogno comune” e cioè che sognare insieme può essere veramente l’inizio di una splendida realtà.
Grazie Eunice per averci regalato questo sogno e grazie a Special Olympics Italia per averci permesso di viverlo! [Eunice Kennedy Shriver è stata la fondatrice, nel 1968, del movimento di Special Olympics, N.d.R.].
Mamma di Gabriele Di Bello, giovane con disabilità intellettiva. Il presente testo è già apparso nel sito di Special Olympics Italia (con il titolo “La storia di un Sogno”) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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