«Mio marito era entrato in ospedale sano e in piena salute per fare una semplice operazione e ne è uscito in coma. Sono stata lasciata sola. Se non avrò degli aiuti concreti, delle risposte certe, io non permetterò che mio marito viva vent’anni in queste condizioni e prenderò la stessa strada della famiglia Englaro, dimostrando che questa scelta era stata esplicitamente richiesta in precedenza da mio marito che non avrebbe mai accettato di sopravvivere in queste condizioni».
Sono le parole di Irene Sampognaro – come riportate da «Libero-News.it» – pronunciate davanti all’Ospedale Garibaldi di Catania, dove il 1° giugno ha dato voce alla sua protesta per la situazione del marito quarantaduenne, Giuseppe Marletta, in coma da un anno, dopo un banale intervento dentario eseguito presso quel nosocomio. «In caso di mancate risposte dalle Istituzioni – ha aggiunto la Signora – porterò mio marito all’estero per praticargli l’eutanasia: questa non è vita. Io sono per la vita, ma quella vera e sono disposta a tornare indietro sulla mia decisione soltanto se lo Stato si farà carico della cura e dell’assistenza ai massimi livelli».
Sulla vicenda – rispetto alla quale sono ancora pendenti un’inchiesta interna dell’Ospedale e una della Procura della Repubblica di Catania – riceviamo e ben volentieri pubblichiamo la seguente nota di Fulvio De Nigris, direttore del Centro Studi per la Ricerca sul Coma dell’Associazione Gli Amici di Luca di Bologna.
Il caso drammatico sollevato da Irene Sampognaro Marletta, moglie di Giuseppe in stato vegetativo da un anno, mette ancora una volta in evidenza l’emergenza delle persone in questa condizione e delle loro famiglie.
Se ne parla soltanto quando l’esasperazione e il dolore spingono a gesti eclatanti o quando l’ennesima notizia del “risveglio miracoloso” ci fa avvicinare alla speranza che tutto torni come prima. Non è così. Non è così che uno Stato civile, un’informazione corretta e costruttiva dovrebbe operare. Bisogna parlare con più frequenza di queste situazioni di difficoltà, di abbandono, nel momento in cui avvengono (e non dopo un anno), nella quotidianità della vita dove è più difficile che si accendano le luci per raccontare una notizia che sembra non esserci.
Perché non si parla più, ad esempio, del giornalista Lamberto Sposini? Probabilmente perché non ci sono notizie buone da dare, un lieto fine che tutti vorremmo ci fosse. Eppure continua ad esserci, in silenzio, il dramma di una persona e di una famiglia.
Il caso di Irene ci dice che in Italia sono migliaia le persone che vivono in questa condizione. Che magari non sono state vittime di malasanità – se in questo caso c’è stata – ma solo del fato avverso e che, comunque, debbono essere aiutate e salvaguardate. Ma che cosa dobbiamo salvaguardare?
Innanzitutto la cittadinanza di queste persone fragili, il loro sostegno e diritto di cura in ogni area geografica di appartenenza. Non soltanto riconoscendo il valore della medicina italiana, ma confrontandosi anche con l’estero, mettendo al centro dell’operare un team interdisciplinare che è l’unione tra operatori sanitari e non, istituzioni, famiglie e volontariato.
Bisogna creare in Italia una rete omogenea di assistenza alle persone in stato vegetativo e di minima coscienza. In questo campo, ormai, sono state recentemente ratificate – il 5 maggio scorso – le Linee di Indirizzo per l’Assistenza alle Persone in Stato Vegetativo e Stato di Minima Coscienza, nella Conferenza Unificata (sede congiunta della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali). Ma chi vigilerà sulla loro applicazione? Chi controllerà che le risorse economiche disponibili siano utilizzate al meglio per rispondere ai bisogni delle famiglie e dei loro assistiti?
Le reti associative possono fare la loro parte, ma da sole non bastano. Questo, infatti, è un problema che riguarda le Istituzioni, le Amministrazioni Locali,che devono confrontarsi – anche con le associazioni di familiari – per sancire diritti obbligatori e dovuti.
Le minacce di eutanasia – come nel caso di cui parliamo – sono sfoghi legittimi, motivati dalla drammaticità degli eventi, ma non devono deviare la nostra attenzione sull’assistenza e sull’impegno sociale.
Purtroppo non riusciremo con i mezzi attuali della ricerca a fare tornare Giuseppe come era prima, ma dobbiamo garantire a lui e alla sua famiglia tutte le possibilità perché possa riprendere il suo progetto di vita e per fare questo dovremo capire che vedere, far conoscere, vuol dire anche riconoscere qualcosa che riguarda tutti.
*Direttore del Centro Studi per la Ricerca sul Coma degli Amici di Luca di Bologna. Componente dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità. Componente dell’Osservatorio Nazionale per il Volontariato (amicidiluca@tin.it).
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