L’identità invisibile: essere autistico, essere adulto

di Rosa Mauro
«Fin dalle prime pagine del libro di Gianfranco Vitale “L’identità invisibile. Essere autistico, essere adulto” - scrive Rosa Mauro - si respira qualcosa che noi genitori di ragazzi con autismo, e anche i nostri figli, conosciamo bene: l’ineluttabilità della solitudine e l’imprevedibilità della nostra vita. È un libro scritto bene, che punta a mostrare con il dito quei “buchi neri” che sono le persone con autismo e i loro genitori e le loro famiglie, a renderli cittadini di questo mondo»

Copertina del libro "L'identità invisibile" di Gianfranco VitaleRecensire il libro L’identità invisibile. Essere autistico, essere adulto di Gianfranco Vitale (Roma, Magi, 2019) è stato difficile. Non certo perché è un libro scritto male, o per la non condivisibilità di ciò che dice, ma per il suo esatto contrario. Fin dalle prime pagine, infatti, si respira infatti qualcosa che noi genitori di ragazzi con autismo, e anche i nostri figli, conosciamo bene: l’ineluttabilità della solitudine e l’imprevedibilità della nostra vita.

Gianfranco non è un pessimista, né lo sono io, ma la prima domanda che ci facciamo durante la giornata è: «Oggi ce la faremo?». E la risposta non è mai certa, così come incerto è l’aiuto che ci dovrebbero dare gli altri, quella società in cui viviamo, per la quale paghiamo le tasse, di cui siamo cittadini, appunto, insieme ai nostri figli.
Io e Gianfranco, i nostri figli Giovanni e Gabriele, i nostri coniugi, separati e non, abbiamo un codice fiscale e siamo nati e viviamo in Italia, come tanti genitori e figli e individui. Ma al contrario di loro, non possiamo contare su una qualità di vita sufficiente, e sulla visibilità che garantisce quella famosa empatia e solidarietà che pure vediamo spesso sbandierata per un giorno all’anno.
Si , proprio quel famoso giorno in cui le luci si dipingono di blu.

Di autismo si parla tanto, quasi troppo. Di persone con l’autismo, invece, non si parla proprio. Perché le persone con autismo – e non gli stereotipi e non i film – non ci vengono davvero mostrate e non entrano davvero in un immaginario collettivo che non li vede protagonisti. Simpatiche “macchiette di film”, oppure geni più o meno compresi, le vere persone con autismo spesso non sono né l’uno né l’altro ed è per questo motivo che la loro vita, e la nostra, è così dannatamente difficile.
Una persona con l’autismo è come qualcuno che viene costretto continuamente a camminare sul filo, sulle braci ardenti, fare il giocoliere, insomma fare cose straordinarie. Perché tale, ai loro occhi, appare la vita dei più, così intrisa di relazioni basate su regole, norme e sottintesi. E anche agli occhi dei loro familiari, perché siamo noi a stare sotto quella fune, a riprendere le manichette, a spegnere le braci.
Un genitore di un ragazzo con autismo ha delle capacità da supereroe, come il proprio figlio, da quando quest’ultimo compie diciotto anni e diventa invisibile.
Al posto di Gianfranco e di suo figlio, al posto mio e di mio figlio Giovanni, e di tanti altri, rimane solo l’autismo, e questo, come per miracolo, include tutte le nicchie: Giovanni, o Gabriele non possono soffrire di mal di pancia come gli altri, non possono avere intolleranze, non possono permettersi di essere depressi, perché tutto sarà, magicamente, autismo.
La loro solitudine non sarà colmata, e chi si occuperà di loro penserà al minimo sindacale, perché dall’altra parte non c’è una persona che dev’essere capita o stimolata, ma solo assistita e al limite imbottita di farmaci.

Questo mi ricorda come un tempo si trattavano gli animali, sopratutto quelli selvatici, i grandi felini per esempio. Si sbattevano in gabbie di pochi metri quadri, e quando diventavano agitati, vai di sedativo.
Sarà meglio la stanza dove purtroppo Gianfranco deve riportare Gabriele, dopo che una mamma troppo sola ha dovuto abdicare alla cura del figlio? Assolutamente no.
Come per quei felini, sui vestiti di Gabriele, sulle fibbie, sulla sua persona e identità ci sono dei numeri e delle sigle. Non scomodiamo paragoni umani, basta pensare agli zoo di una volta…
Nella sua gabbia, Gabriele non può fare altro che arrabbiarsi, ma senza essere visto, malgrado lui veda bene, eccome. Il vuoto sociale in cui cadono i ragazzi, gli uomini come lui, viene interrotto solo quando grida, quando prende a botte, quando mostra la sua presenza. C’è da stupirsi quindi che lui usi questo sistema?
Noi possiamo parlare, e cercare di esprimere sensazioni ed emozioni, ma Gabriele ha difficoltà a farlo, e se succedesse a uno di noi, come di fatto capita in casi di ictus e di TIA [attacco ischemico transitorio, N.d.R.], ci sbracceremmo per poter fare ritornare la persona in grado di comunicare, di avere una relazione. Perché chi subisce un ictus , un TIA, è uno di noi, o per meglio dire “uno di voi”.
La genitorialità costringe me, e ha costretto Gianfranco Vitale che scrive, a essere dalla parte dei nostri figli, e vedere chiaramente la resa della cosiddetta società civile, di fronte alla necessità di rivedere il proprio mondo per includere anche la neurodiversità. Sentimenti umani come la frustrazione e la noia vengono sedati con le medicine, e visti come sintomi senza necessità di risposta.
La società che segue Gabriele – perfino la maggior parte dei medici e degli operatori – non è nemmeno indifferente, questo sarebbe già un progresso: è consapevolmente distruttiva nei confronti di una condizione che, magicamente, trasforma un uomo in oggetto e non soggetto di cure. In questa condizione, a nulla sembrano valere le proteste del padre, la buona volontà di alcuni medici che però, curiosamente, si estende ai sintomi non sfiorando la persona, sempre considerata un insieme degli stessi. Così l’epilessia diventa qualcosa da curare sì, ma per carità, si può solo consigliare un abbassamento dei farmaci che contribuiscono ad alimentarla.
E il grave dramma personale del padre, ma anche della madre, con condizioni di salute che riducono anche lei alla disabilità, non merita nemmeno una telefonata, un messaggio di testo, un qualunque cenno di simpatia dal Centro dove pure Gabriele trascorre il tempo. Individui che non sono mai figli da compatire, persone da supportare, bisognose di amore, di cure, e di rispetto. Genitori che non possono lasciarsi andare, piangere, fare vacanze da soli, a parte i brevi momenti dei soggiorni, curarsi.
È la terribile chiave che Gabriele dà, ad un certo punto della storia, che citerò alla fine, scritta sulla carta e impressa nel suo cuore.

Questo è il libro di Gianfranco Vitale, un libro scritto bene, che punta a mostrare con il dito quei “buchi neri” e a renderli di nuovo madri, padri, figli, famiglie. Cittadini di questo mondo.
Perché ora, proprio ora, malgrado le chiacchiere delle Giornate sull’Autismo, i saggi convegni in cui si parla, noi non viviamo davvero in questo mondo. I nostri figli non ci vivono, Gabriele non ci vive.
Dov’è dunque Gabriele, dove sarà mio figlio? Avete davanti a voi la soluzione, è il Golgota, è quel Gesù solo e crocifisso, un Dio abbandonato che non può che urlare. Una profezia che può essere smentita, se ci si toglie quel velo ipocrita dagli occhi, se vediamo la neurodiversità per ciò che è, una condizione di persone umane: facciamo scendere Gabriele dalla croce!

Gianfranco Vitale, L’identità invisibile. Essere autistico, essere adulto, Roma, Magi, 2019, 208 pagine.

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