«Quando qualcuno sente che sei autistico, o ti pone immediatamente sotto una cappa di vetro, presumendo che tu non possa fare nulla oppure ti ritiene una sorta di “supereroe” che probabilmente vincerà il Nobel!».
Le parole di Adam Harris dell’Associazione irlandes AsIAm.ie, impegnata sul fronte dell’autismo, sintetizzano al meglio il senso di uno dei concetti principali espressi nel corso di una recente audizione del CESE (Comitato Economico e Sociale Europeo) – fondamentale organo consultivo della Commissione Europea – dedicata al tema Comunicare i diritti delle persone con disabilità, che oltre ai membri del CESE stesso, ha riunito a Bruxelles i rappresentanti di numerose organizzazioni europee impegnate sul fronte dei diritti delle persone con disabilità, e anche gli esponenti dell’EBU (European Broadcasting Union), l’Unione Europea di Radiodiffusione che associa diversi operatori pubblici e privati del settore della teleradiodiffusione, nonché dell’MDI (Media Diversity Institute), organo di controllo dei media che incoraggia un’apertura responsabile alle diversità nel mondo della comunicazione.
Sostanzialmente quattro sono stati i filoni di discussione, riguardanti rispettivamente i contenuti della comunicazione, l’accessibilità alla stessa, il linguaggio degli operatori dell’informazione e il compito, in questo settore, delle organizzazioni di persone con disabilità.
Rispetto ai contenuti, è emerso con chiarezza, durante l’incontro, che per arrivare a una comunicazione sulla disabilità realmente accurata e inclusiva, la strada da fare è ancora lunga. Troppi, infatti, sono tuttora gli stereotipi, le idee sbagliate, i messaggi compassionevoli, le persone con disabilità presentate come “eterni bambini” o, al contrario, come una sorta di “supereroi”, in grado di compiere imprese ai limiti dell’impossibile. E invece, come ha sottolineato Yannis Vardakastanis, presidente del Forum Europeo sulla Disabilità (EDF) e membro del CESE, «la comunicazione dei diritti delle persone con disabilità dovrebbe avere ben altro spessore ed essere considerata come una parte importante della più ampia questione di come rappresentiamo la diversità nella nostra società, ciò che è al centro dei nostri stessi valori democratici».
Interessante anche l’osservazione di André Felix dell’Ufficio Comunicazione dell’EDF, secondo il quale «la presentazione di storie sulla disabilità con toni eccessivamente emozionali viene usata soprattutto per far sentire meglio con se stesse le persone senza disabilità». «È un fatto certamente discriminatorio – ha aggiunto – ma sta accadendo e non poco, rischiando naturalmente di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi reali delle persone con disabilità».
Un esempio di buona prassi, presentato durante l’incontro, è stato quello di Heartbreakers, progetto multimediale promosso dalla Fondazione della Repubblica Ceca che fornisce supporto all’occupazione delle persone con disabilità, e che consiste in alcuni brevi video ove si raccontano altrettante storie sia dal punto di vista del lavoratore con disabilità che del datore di lavoro. Un esempio, questo, che dovrebbe essere seguito dagli stessi programmi di intrattenimento, con la partecipazione diretta di persone con disabilità, sia sullo schermo che dietro le quinte, per fornire una rappresentazione più adeguata della realtà.
Altri programmi di emittenti pubbliche degni di menzione, per la loro capacità di combattere lo stigma e di proporre narrazioni che promuovono l’inclusività sono stati individuati in Belgio (Taboo) e in Irlanda (il documentario What Makes My Day).
A questo punto tutti i presenti hanno concordato sul fatto che tra le tante cose ancora da realizzare a livello normativo e politico, riguardo alla comunicazione dei diritti delle persone con disabilità, servirà anche l’adozione di un preciso codice di condotta, regolamentando in tal senso anche i social media, sia a livello dell’Unione Europea che dei singoli Stati Membri.
Si è opassati quindi al tema delle audiodescrizioni e dei sottotitoli, che rendono la comunicazione accessibile a tutti, anche alle persone con disabilità sensoriali: anche in questo caso, durante l’audizione del CESE si è posto l’accento sul lavoro che ancora c’è da fare, ricordando però, al tempo stesso, l’indubbio aumento, in questi ultimi anni, di media che offrono servizi accessibili, per lo meno all’interno delle emittenti pubbliche, a partire dalla BBC del Regno Unito, ritenuta un vero punto di riferimento per tale questione.
Ampio spazio, quindi, è stato dato al tema del linguaggio utilizzato dagli operatori dell’informazione. «La formazione dei giornalisti è fondamentale – ha dichiarato a tal proposito Milica Pešić dell’MDI – e sarebbe particolarmente importante lavorare insieme al mondo accademico e ai dipartimenti di giornalismo, per insegnare il giornalismo inclusivo e come usare la lingua e la terminologia più appropriata e corretta quando si parla di disabilità».
«A livello europeo – ha concluso – tutte le Istituzioni, in primis l’Unione Europea, dovrebbero avere una politica specifica sulla comunicazione dei diritti delle persone con disabilità, nel pieno rispetto della Convenzione ONU».
Da parte nostra, in pieno accordo con le parole di Pešić, riteniamo di poter portare un buon contributo su questo tema, riprendendo nel box in calce il Decalogo della buona informazione sulla disabilità, redatto nell’ormai lontano 1998 da Franco Bomprezzi, ma ancora del tutto valido più di vent’anni dopo.
Nella parte conclusiva dell’audizione, si è parlato della comunicazione proposta dalle organizzazioni di persone con disabilità, «che dovrebbe adattarsi – come si è detto – ai vincoli del giornalismo moderno, fatto di un minor numero di giornalisti che “lottano” per coprire sempre più notizie e rispettare scadenze sempre più stringenti, con retribuzioni purtroppo inferiori al passato». Anche per questo, le informazioni sulla disabilità fornite ai giornalisti dovrebbero essere chiare, utilizzando il linguaggio più semplice possibile.
Tale questione è stata mirabilmente sintetizzata da Andrew Stroehlein di Human Rights Watch, che ha dichiarato: «Abbiamo un problema serio quando presentiamo il nostro materiale alle agenzie o alle testate giornalistiche generaliste, in quanto spesso viene visto come troppo complicato o noioso. Ma siccome le questioni di cui ci occupiamo sono troppo importanti per diffonderle in poche righe, bisogna cercare di fornire notizie interessanti in modo chiaro, per impedire ai media di continuare a parlare di disabilità all’insegna dei luoghi comuni». (Stefano Borgato)
Decalogo della buona informazione sulla disabilità
Franco Bomprezzi, 1998
1) Considerare nell’informazione la persona con disabilità come fine e non come mezzo.
2) Considerare la disabilità come una situazione “normale” che può capitare a tutti nel corso dell’esistenza.
3) Rispettare la “diversità” di ogni persona con disabilità: non esistono regole standard né situazioni identiche.
4) Scrivere (o parlare) di disabilità solo dopo avere verificato le notizie, attingendo possibilmente alla fonte più documentata e imparziale.
5) Utilizzare le immagini, nuove o di archivio, solo quando sono indispensabili e comunque corredandole di didascalie corrette e non offensive della dignità della persona. Quando la persona oggetto dell’immagine è chiaramente riconoscibile, chiederne il consenso alla pubblicazione.
6) Ricorrere al parere dei genitori o dei familiari solo quando la persona con disabilità non è dichiaratamente ed evidentemente in grado di argomentare in modo autonomo, con i mezzi (anche tecnologici) a sua disposizione.
7) Avvicinare e consultare regolarmente, nell’àmbito del lavoro informativo, le associazioni, le istituzioni e le fonti in grado di fornire notizie certe e documentate sulla disabilità e sulle sue problematiche.
8) Ospitare correttamente e tempestivamente le richieste di precisazione o di chiarimento in merito a notizie e articoli pubblicati o diffusi.
9) Considerare le persone con disabilità anche come possibile soggetto di informazione e non solo come oggetto di comunicazione.
10) Eliminare dal linguaggio giornalistico (e radiotelevisivo) locuzioni stereotipate, luoghi comuni, affermazioni pietistiche, generalizzazioni e banalizzazioni di routine. Concepire titoli che riescano ad essere efficaci e interessanti, senza cadere nella volgarità o nell’ignoranza e rispettando il contenuto della notizia.
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