Una storia a lieto fine. Lunga, tormentata, dolorosa, controversa. Ma oggi possiamo festeggiare perché a vincere sembra siano stati proprio i bambini. Erano in centodieci che da novembre dell’anno scorso non ricevevano più i trattamenti di riabilitazione di cui avevano bisogno. Erano in centodieci a subire una violazione dei diritti umani, in quanto privati dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).
Mentre gli adulti litigavano, discutevano, cercavano soluzioni, loro subivano le conseguenze gravi della sospensione delle cure. Stavamo seguendo già da un po’ questo caso ed eravamo pronti a pubblicare un’indagine che esponesse le ragioni delle parti coinvolte. Ci siamo addentrati in un terreno delicato e sensibile, con l’obiettivo di rafforzare la richiesta di giustizia per questi minori con disabilità. Poi Emanuela Scordino ci ha dato la notizia.
La coordinatrice scientifica della struttura calabrese che fa capo al centro genovese Afa Reul (Associazione Famiglie Audiolesi – Riabilitazione Educazione Udito e Linguaggio) ci ha annunciato che dal primo luglio la struttura riaprirà le sue porte. A Bianco, nella zona della Locride, i diciotto tra terapisti della riabilitazione, operatori socio-assistenziali e impiegati amministrativi non dovranno più prorogare la richiesta di cassa integrazione. Dal primo luglio torneranno a lavorare. Erano a casa dal 15 novembre del 2010. Da quel giorno, tra le mura della struttura riabilitativa, si è mossa soltanto la Scordino. Per sette mesi la coordinatrice scientifica e referente dei terapisti ha risposto al telefono e presidiato il Centro in contatto diretto con la presidenza di Genova. Un compito, il suo, delicato e, per molti aspetti, esasperante.
«Forse il mio incarico sarebbe stato più adatto alla responsabile amministrativa, ma è in maternità e così è toccato a me» commenta. «Le mie colleghe mi prendono in giro, dicono che faccio la centralinista e mi viene un poco da ridere, in effetti».
Invece non è stato così?
«Un po’ è così, sì. Certo non ho più fatto il lavoro di prima. Ma in realtà il mio compito non è stato solo quello di rispondere al telefono. Più che altro, ho mantenuto aggiornata la documentazione necessaria per essere pronti a riaprire da un momento all’altro. E poi ho curato i rapporti con le parti, l’Azienda Sanitaria, la Regione, i genitori e il comitato dei Sindaci. Non è stato semplice, l’attesa è stata estenuante. Ma ora finalmente posso tornare a svolgere il mio vero lavoro».
Com’è stato trascorrere le giornate in una struttura vuota?
«Terribile. È tutto immobile qui. Si respiravano solo attesa e frustrazione».
Silvana Baroni, presidente del Centro, già a fine maggio sperava di non dover avanzare la domanda per proseguire la cassa integrazione. Aveva infatti espresso tutt’altro desiderio: che il Centro finalmente riaprisse. «La cassa integrazione è una forma di tutela dei lavoratori – ci aveva spiegato – non certo degli oltre cento bambini che da sette mesi sono privati dei Livelli Essenziali di Assistenza. Senza menzionare il fatto che oltre a loro ne avremmo altri cinquanta in lista d’attesa».
Dopo svariati incontri con la dirigente dell’Azienda Sanitaria Provinciale e i commissari della regione Calabria, per sollecitare l’apertura, la sua speranza è finalmente diventata realtà.
Che tipo di servizi offrite?
«Forniamo terapie di logopedia, neuropsicomotricità e pedagogia specializzata. Abbiamo anche predisposto un nuovo servizio di collaborazione con la scuola, in base al quale i nostri terapisti verificano le necessità del bambino in aula e insieme agli insegnanti mettono a punto delle strategie finalizzate al suo benessere. Naturalmente sono tutti servizi gratuiti, garantiti sulla base di una convenzione che la nostra ONLUS stringe ogni anno con l’Azienda Sanitaria. In tale convenzione veniamo incaricati di fornire i servizi e finanziati per adempiere al nostro compito. Siamo accreditati presso la Regione per fornire cinquantacinque trattamenti ambulatoriali al giorno».
Chi si rivolge a voi?
«Dai neonati agli adolescenti, bambini e ragazzi non udenti, con disabilità complesse o con disturbi della comunicazione, che comprendono anche le varie forme dell’autismo».
La signora Graziella Scundi Cristiano, madre di un ragazzo quindicenne con sindrome autistica, conferma la bontà delle terapie offerte dal Centro. «Mio figlio, oggi quindicenne, frequenta il Centro di Bianco da otto anni. Ci andavamo quattro volte alla settimana, per ricevere due ore di logopedia e due di psicomotricità. I progressi ottenuti nel tempo sono stati notevoli. Nelle ultime visite prima della chiusura, si stavano predisponendo anche delle terapie cognitive, perché stava iniziando a leggere e scrivere».
Quindi ritiene importanti le prestazioni fornite?
«Sì, grazie soprattutto alla bravura della terapista che ha seguito mio figlio fin dall’inizio e con la quale abbiamo un rapporto di cura che è riuscito ad andare perfino oltre alla chiusura del Centro, dal momento che, pur non potendo più fornire il suo lavoro, ha continuato a telefonarci per aggiornarsi sullo stato di salute del ragazzo».
Per i centodieci bambini che lo frequentavano, la chiusura del Centro è stata drammatica. Rimanere per sette mesi privati di terapie che invece dovrebbero essere continuative significa aver subìto un danno che per alcuni potrebbe essere addirittura irreversibile. Per questo la vicenda, anche se si è conclusa bene, è stata grave. Perché a farne le spese sono stati dei bambini. Ce lo racconta la signora Scundi Cristiano.
«Mio figlio è autistico e ha bisogno di sapere sempre quello che succede. Un cambiamento così improvviso è stato uno shock che lo ha destabilizzato. Nella sua mente la struttura non è un luogo di cura, ma l’abitazione dei due terapisti che lo seguono. Quello che ha capito è che gli hanno chiuso la porta in faccia, lo hanno rifiutato, cacciato da casa loro».
Senza terapie come ha vissuto in questi mesi?
«Male. Ha avuto una regressione. Il neuropsichiatra che lo ha visitato recentemente ha registrato un peggioramento del quadro cognitivo, linguistico e relazionale. Risulta che mio figlio è irrequieto, i suoi tempi d’ascolto si sono ridotti, è ripetitivo e continua a chiedere sempre le stesse cose. Le sue stereotipie motorie e verbali si sono di nuovo accentuate. Un’involuzione generale che non doveva accadere perché quelle fornite dal Centro sono cure continuative, cioè che non si devono interrompere mai».
È questo il punto centrale della questione. Il Centro di Bianco fornisce prestazioni che rientrano nei LEA e la cui interruzione comporta una violazione dei diritti. Nonostante la cosa più importante sia che ora sta finalmente per riaprire, vogliamo lo stesso provare a raccontare cos’è accaduto.
Chiediamo a Silvana Baroni di spiegarci la sua decisione di chiuderlo.
«Sono stata contestata per questa scelta, perciò provo a spiegare come sono andate le cose. Partiamo dall’inizio del 2010. Il direttore dell’Azienda Sanitaria Locale (ASL) con cui lavoravamo (che nel frattempo, assorbendone un’altra, è diventata Azienda Sanitaria Provinciale) mi aveva assicurato che aveva intenzione di acquisire il numero massimo di prestazioni per le quali siamo accreditati in Regione, cinquantacinque al giorno, circa dodicimila l’anno. Così abbiamo iniziato il 2010 tenendo il massimo regime. A fine febbraio dello scorso anno è arrivata la notizia che ha cambiato tutto. A causa di una svista».
Una svista?
«Esatto. Così ci hanno riferito. Praticamente l’ASL ha erroneamente spostato una cifra del capitolo di bilancio dalla riabilitazione alla protesica. Noi della riabilitazione ci siamo trovati all’improvviso con un sacco di soldi in meno e nonostante gli scambi di missive tra Regione e ASL per risolvere la svista, la situazione è rimasta drammaticamente invariata. L’unica possibilità a quel punto era di essere finanziati per i tre quarti di quanto promesso, pena la perdita dell’accreditamento».
Con quei soldi potevate ridurre il valore economico di ciascuna prestazione e mantenere il regime pieno di lavoro?
«Non sarei stata in grado di pagare gli stipendi. Noi siamo una ONLUS e non abbiamo capitali. I nostri pagamenti avvengono solo tramite le convenzioni che stipuliamo con le ASL di competenza».
Poi cos’è successo?
«Il tetto massimo per tutto il 2010 era qualcosa più di seimila prestazioni, mentre pensavamo di poterne offrire il doppio. Siccome i primi mesi dell’anno avevamo tenuto la media delle oltre cinquanta prestazioni quotidiane, siamo stati costretti a ridurre il ritmo di lavoro, in modo da “spalmare” quelle rimanenti nel corso dei mesi successivi. Mi è anche stata ventilata la possibilità di scegliere di escludere alcuni bambini, ma è una strada che non ho preso in considerazione».
Infine è arrivato novembre.
«Esatto. A ottobre avevamo finito le seimila prestazioni. Chi avrebbe pagato per le successive? Abbiamo lavorato ancora un mese e gli stipendi sono stati comunque pagati. Ma non era possibile reggere oltre: senza i fondi regionali non c’era modo di stipendiare il personale perché quello che forniamo è un servizio pubblico. Eravamo quasi alla fine dell’anno. La nuova convenzione per coprire i servizi del 2011 non arrivava e nemmeno una promessa che si sarebbe fatta. Così a metà novembre ho chiuso, in attesa di un cenno scritto per poter riaprire».
È la prima volta che vi trovate in una situazione del genere?
«Ci era già capitato di sperimentare dei ritardi nei rimborsi, e nel 2008 per alcuni mesi non sono proprio arrivati e abbiamo lo stesso continuato il servizio di terapia. Abbiamo sempre firmato la convenzione con qualche mese di ritardo e intanto siamo partiti lo stesso senza copertura. Ma questa è stata la prima volta in cui non ci è stata data alcuna garanzia scritta, neanche una promessa di impegno».
Rosanna Squillacioti, commissario straordinario dell’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP), dichiara che non era nella condizione di poter rilasciare una promessa scritta. L’ASP è commissariata e così anche la Regione e i movimenti del budget sono limitati e vincolati. Aveva sollecitato a voce Baroni, contestando la sua scelta, unica controcorrente in mezzo a quella delle altre strutture locali, che invece hanno continuato a fornire i servizi pur senza un accordo scritto. Secondo il commissario straordinario, Baroni doveva continuare a lavorare anche senza garanzie scritte.
Lo scambio finale di missive e risposte pubblicate sui giornali locali ha portato infine al risultato che tutti desideravano: il bene dei bambini. Silvana Baroni ci ha mostrato un documento nel quale Rosanna Squillacioti promette la copertura per il 2011, ricevuto a metà giugno 2011, ma datato marzo dello stesso anno.
È difficile capire che cosa davvero è successo, dove il meccanismo si è inceppato. I sette mesi di disagio a chi si devono imputare? Al Centro, che secondo il Comitato dei Genitori – composto da una quarantina di loro, tra cui Graziella Scundi Cristiano, su oltre duecento – non ha presentato denuncia al TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) contro la Regione per non essere stato messo in grado di adempiere alla sua funzione? (Va ricordato anche che lo stesso Comitato dei Genitori – che ha stimolato la riapertura riuscendo a incontrare Squillacioti e altre autorità coinvolte, soprattutto grazie alla collaborazione con il Comitato dei Sindaci -disapprova la decisione del Consiglio Amministrativo di Afa Reul di chiudere il Centro). O ai genitori stessi, visto che secondo Silvana Baroni spettava invece a loro rivolgersi al tribunale? O ancora, alla Regione e all’ASL, dal momento che quello che non è stato garantito è un servizio pubblico?
Non è facile né sta a noi sciogliere un nodo che fatica a districarsi e che – stringendosi – fa soffrire e arrabbiare molte persone. Però possiamo concludere con una dichiarazione che Rosanna Squillacioti ci ha rilasciato telefonicamente e che farà ben sperare tutti: in questi giorni l’ASP sta cercando di preparare il contratto e di arrivare alle firme che lo renderanno definitivo. Che sia dunque il caso di concludere con il. proverbiale “tutto è bene quel che finisce bene”?
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