Dico che tra le donne con disabilità le più esposte a violenza sessuale sono quelle con disabilità intellettiva e psichiatrica, ma lei minimizza: «Le donne con disabilità intellettiva non soffrono, o soffrono meno, perché non si rendono conto di ciò che hanno subito», osserva. Chi ha una disabilità della mente, quindi, non capisce. E chi non capisce non è in grado di esprimere consenso/dissenso ad atti sessuali, o ad altre questioni, perché, semplicemente, non coglie la realtà.
Pregiudizi, né più né meno, ma non è solo questa mia potenziale interlocutrice a coltivarli, anzi è in larghissima compagnia. Proprio per questo, nei giorni in cui in tutto il mondo si organizzano eventi che ruotano intorno alla Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne (che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha stabilito venga celebrata il 25 novembre), diventa importante soffermarsi a riflettere sull’espressione del consenso, concetto centrale per distinguere ciò che è violenza da ciò che non lo è in àmbito sessuale, anche in relazione ai casi nei quali una o entrambe le persone coinvolte nell’atto sessuale abbiano una disabilità.
I modelli giuridici
Per farci un’idea del rilievo accordato all’espressione del consenso ad un atto sessuale possiamo fare riferimento alla disciplina dei reati sessuali adottata dai diversi Paesi.
In teoria dovrebbe essere tutto molto semplice: se una persona esprime consenso a un atto sessuale non c’è violenza, se non lo esprime, ciò dovrebbe costituire reato. Dovrebbe, perché sotto un profilo normativo non sempre è così. Infatti, in base all’importanza attribuita al consenso, possiamo distinguere tra tre diversi modelli giuridici, ovvero il “modello consensuale puro”, per il quale è reato qualsiasi tipo di atto sessuale nel quale manchi il consenso valido della persona offesa; il “modello consensuale limitato”, che considera reato qualsiasi atto sessuale rispetto al quale la vittima abbia manifestato un chiaro dissenso; e infine il “modello vincolato”, che ritiene violenti solo gli atti sessuali nei quali ricorrano i vincoli della costrizione, della violenza e della minaccia.
Nella sostanza gli ultimi due modelli – invece di verificare caso per caso se la persona abbia espresso il proprio consenso ad un atto sessuale – impostano la riflessione a partire da una sorta di “presunzione di consenso”. Pertanto, ai fini giuridici, se la vittima non ha detto né «sì», né «no», viene dato per acquisito che fosse consenziente; a ciò si possono aggiungere ulteriori vincoli per i quali possiamo parlare di aggressione sessuale solo in presenza di costrizione, violenza e minaccia.
Questa impostazione non tiene conto del fatto che ci possono essere situazioni nelle quali una persona potrebbe non essere in grado né di difendersi (dunque non occorre che ci sia una particolare azione coercitiva per indurla a un atto sessuale), né di esprimere consenso o dissenso, perché magari è talmente terrorizzata da non riuscire né a muoversi, né a parlare.
Dunque non è sempre vero che «chi tace acconsente», e partire da una “presunzione di consenso” può portare ad attribuire alla parte offesa una corresponsabilità nella violenza subita.
Come funzionano le cose nel nostro Paese? In Italia l’impianto sanzionatorio contiene gli elementi del “modello vincolato”; recita infatti il primo comma dell’articolo 609-bis del Codice Penale in materia di violenza sessuale: «Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni».
Lo stesso articolo, per altro, attribuisce rilevanza alla presenza di una disabilità nella vittima (anche se lo fa con un’espressione davvero infelice), allorquando, nel secondo comma, commina la stessa pena detentiva – da sei a dodici anni – a chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto». Quindi, abusare di dette condizioni costituisce di per sé reato, anche in assenza dei vincoli indicati nel primo comma dell’articolo in questione.
Ciò premesso, è pur vero che la recente giurisprudenza ha teso ad orientarsi verso il “modello consensuale limitato”.
Le persone con disabilità e l’espressione del consenso
Cosa cambia sul fronte del consenso nei casi in cui una o entrambe le persone coinvolte nell’atto sessuale abbiano una disabilità? Dipende dal tipo di disabilità, ma anche da altri elementi.
Disabilità fisica/motoria
In linea di massima se la persona ha una disabilità di tipo fisico/motorio non dovrebbe cambiare niente, poiché frequentemente questa non impedisce l’espressione verbale.
Fanno eccezione i casi nei quali la persona si esprime con difficoltà o ha perso l’uso della parola (ad esempio per una lesione alle corde vocali, o per una lesione cerebrale, oppure, ancora, nelle fasi avanzate di alcune patologie neurodegenerative ecc.), per i quali è necessario trovare altre vie di comunicazione. Le soluzioni possono essere diverse: la gestualità, l’impiego di tecnologie informatiche, i diversi sistemi di comunicazione aumentativa alternativa, le tavolette di plexiglas con le lettere, i comunicatori simbolici, ecc.
Cecità
Non dovrebbe cambiare molto neanche per le persone cieche, salvo il fatto che per esprimere un consenso realmente consapevole chi lo richiede dovrebbe fornire, in determinate circostanze, informazioni addizionali sul contesto – se l’ambiente non è familiare alla persona cieca – segnalando aspetti che potrebbero avere rilevanza per la persona in questione, e che questa potrebbe non essere in grado di cogliere da sola. L’elemento contestuale non è un fattore neutro.
Sordità
Nel caso delle persone sorde possiamo avere situazioni alquanto frastagliate perché la sordità influisce sulle modalità di comunicazione.
Ci sono persone sorde che grazie alle protesi o ad impianti cocleari riescono a sentire e hanno imparato a parlare; questa situazione non pone particolari condizioni ai fini dell’espressione del consenso.
Ve ne sono poi altre che non sentono, ma leggono il labiale dell’interlocutore e sanno parlare: in questo caso, per interloquirle, è importante guardare la persona in viso.
Vi sono altre persone ancora che non sentono e comunicano con la Lingua dei Segni, e chi vuole comunicare con loro la deve conoscere o servirsi di un/a interprete. Una possibilità alternativa potrebbe essere la comunicazione scritta.
Disabilità intellettive, relazionali, psichiatriche
Più complessa e articolata è la situazione delle persone con disabilità intellettiva, relazionale o psichiatrica, perché se è sempre vero che persone diverse, pur avendo lo stesso tipo di disabilità, potrebbero avere caratteristiche e autonomie molto dissimili, in questi tipi di disabilità la varianza delle situazioni è particolarmente elevata.
Una persona con disabilità intellettiva lieve potrebbe benissimo essere in grado di decidere se un’attenzione sessuale le è gradita oppure no, e comunicarlo. In genere, però, le persone con disabilità intellettiva per esprimere alcune abilità/autonomie hanno necessità di specifici interventi educativi.
Riguardo all’aspetto del consenso ad un atto sessuale, può essere discriminante che la persona in questione abbia ricevuto un’educazione sessuale per esprimere la sessualità in modo consapevole e responsabile (prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili e scelte di genitorialità), ma anche per rifiutare atteggiamenti/atti sessuali sgraditi, ed eventualmente chiedere aiuto a persone fidate, e denunciare una violenza. Senza questa alfabetizzazione ai temi della sessualità, molte persone con disabilità intellettiva non sono in grado di leggere e interpretare correttamente i diversi atti sessuali, di sceglierli consapevolmente, e sono esposte a subirli.
Purtroppo, tranne alcune eccezioni virtuose – si veda, ad esempio, un recente progetto promosso dall’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) – le persone con questo tipo di disabilità non ricevono nessuna educazione all’affettività e alla sessualità, con tutto ciò che ne può conseguire.
E ancora, alcune forme di autismo comportano un ritardo cognitivo la cui gravità varia da caso a caso, altre no. Pertanto, riguardo alle persone con autismo, è sempre bene verificare questo aspetto. Nel caso poi di persone con autismo che non parlano, è fondamentale sapere che la comunicazione facilitata (una tecnica di comunicazione che si avvale del supporto di un facilitatore) non è un metodo valido per interloquire con loro, e anche se molti continuano a proporlo/utilizzarlo, non esistono evidenze scientifiche in tal senso. Questo dato è molto importante perché ci sono stati sia in Italia che all’estero diversi casi di denunce di violenza effettuate utilizzando la comunicazione facilitata che si sono rivelate false, causando un dolorosissimo danno sia alle persone con autismo coinvolte, costrette a cambiare abitudini (cosa di solito molto problematica per loro), sia a coloro che sono stati ingiustamente accusati di reati particolarmente infamanti*.
Anche nel caso di disabilità psichiatriche è necessario vedere caso per caso cosa la persona è in grado di fare. Ci sono situazioni in cui alcuni aspetti patologici possono essere gestiti con l’uso dei farmaci, e la persona che li assume correttamente è in grado di esprimersi con consapevolezza riguardo a un atto sessuale. Ci sono invece altre situazioni nelle quali questo non è possibile.
Considerazioni finali
Acconsentire a un atto sessuale gradito, o rifiutarne uno indesiderato e molesto, sono due facce della stessa medaglia. Basandoci sulle osservazioni precedenti, possiamo sintetizzare che, in relazione all’espressione del consenso a un atto sessuale che coinvolga persone con disabilità, si pongono diversi tipi di questioni.
Nel caso di persone con disabilità intellettiva, relazionale o psichiatrica, si pone quella di valutare caso per caso se la persona abbia la capacità di dare/negare il proprio consenso ad un atto sessuale. È inoltre necessario mettere a fuoco che per costoro l’educazione all’affettività e alla sessualità non dovrebbe essere solo un momento formativo per imparare a vivere consapevolmente e serenamente le relazioni più intime, ma anche l’occasione più consona per parlare di violenza e dare loro strumenti per difendersi da essa. Infine, nei casi in cui le modalità di comunicazione utilizzate dalla persona con disabilità siano diverse da quelle comunemente impiegate dagli altri, è necessario che la persona in questione sia messa in condizione di potersi esprimere.
Nella prevenzione e nel contrasto della violenza di genere, tutti questi aspetti devono essere adeguatamente ponderati. La qual cosa può essere conseguita coinvolgendo nelle équipe di lavoro sui casi chi, avendo una disabilità o essendo abitualmente impegnato/a nelle rivendicazioni delle persone con disabilità, dispone delle competenze necessarie a comprendere ed affrontare in modo appropriato le diverse situazioni che si possono presentare.
Nonostante i pochi dati disponibili** mostrino chiaramente che le donne con disabilità sono esposte a violenza più delle altre donne, esse sono ancora soggette a scontrarsi con l’inadeguatezza e l’inaccessibilità dei servizi antiviolenza, che solo in rarissimi casi sono preparati ad accoglierle.
In questo contesto, la presente riflessione sull’espressione del consenso agli atti sessuali, quando essi coinvolgono persone con disabilità, e in particolare le donne (visti i dati sulla violenza), si presta a una duplice lettura. Da un lato vuole essere un invito a non ragionare per stereotipi e luoghi comuni. Dall’altro vuole evidenziare che per affrontare efficacemente il fenomeno della violenza sulle donne con disabilità è necessario un dialogo tra chi si occupa di violenza sulle donne e chi di disabilità. Un dialogo che, ad oggi, è solo vagamente accennato.
Lo scorso 15 ottobre la Camera dei Deputati ha approvato all’unanimità quattro differenti Mozioni finalizzate a contrastare la discriminazione multipla che colpisce le donne con disabilità (se ne legga ampiamente sulle nostre pagine). Una di esse, la Mozione 1-00264, proprio nelle disposizioni in tema di contrasto alla violenza di genere, prevede che sia garantita in ogni caso la partecipazione attiva delle associazioni maggiormente rappresentative delle persone con disabilità.
Questi, sulla carta, sono i propositi, attendiamo i fatti.
*A tal proposito si veda la vicenda che ha interessato la famiglia di Gaia Rayneri, da lei stessa narrata nel libro Pulce non c’è (Einaudi, 2009), dal quale, nel 2012, è stato tratto l’omonimo film diretto da Giuseppe Bonito. Se ne legga un approfondimento sulle nostre pagine.
** Stando agli ultimi dati ISTAT disponibili (riferiti all’anno 2014), le donne con disabilità sono più esposte a violenza rispetto alle altre donne: ad esempio, il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio, il 10%, contro il 4,7% delle donne senza disabilità.
Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito questo approfondimento è già apparso. Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione, così come le immagini utilizzate nel testo originale.
Per approfondire i temi trattati nel presente testo, suggeriamo anche la lettura di:
° Spagna, la violentano a turno in 5 ma lei è “incosciente”: pena ridotta per gli stupratori, in «la Repubblica», 1 novembre 2019 (un emblematico caso di cronaca, questo, che mostra meglio di qualsiasi argomentazione teorica gli esiti del cosiddetto “modello vincolato”).
° La Grecia cambia la legge sullo stupro, in «Lettera Donna», 10 giugno 2019.
° Stephanie Burnett, Il sesso non consensuale è stupro? Non per la maggior parte dei Paesi europei, in «Euronews», 3 maggio 2018.
Più in generale, sul tema Donne e disabilità, oltreché fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, si può accedere, nel sito del Centro Informare un’h, alle Sezioni La violenza nei confronti delle donne con disabilità e Donne con disabilità.
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