Come scalare l’Everest

di Valentina Boscolo
Ci sono barriere culturali che costantemente riportano una persona con disabilità alla sua condizione e in molti casi si tratta di atteggiamenti provenienti dalle stesse persone con disabilità. Una rivoluzione reale, dunque, dovrebbe partire proprio da queste ultime, lottando per l'autonomia in ogni ambito e proponendosi anche per lavori non esclusivamente "da disabili"

Disegno di Emilio Giannelli, realizzato in esclusiva per «DM», giornale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) (riproduzione riservata)Come scalare l’Everest sembra il titolo di un film o di un manuale di sopravvivenza e invece è ciò che penso ogni mattina, appena sveglia, quando, pronta ad affrontare una nuova giornata, mi tuffo nel mondo.
Sia ben chiaro che chi scrive non ha velleità da alpinista, soffrendo di vertigini e avendo la temerarietà “di un coniglio”, ma è così che mi sento nel fronteggiare quotidianamente barriere architettoniche e mentali attorno a me.

Amo vivere la mia città, girandola in lungo e in largo con una carrozzina a motore – cosa fattibile, negli ultimi anni, anche grazie al lavoro della mia Sezione UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), fortemente impegnata per l’abbattimento della barriere – e come un motociclista in sella alla sua Harley, sfreccio per vie e viuzze in totale autonomia, sentemdomi libera e indipendente nonostante la mia disabilità.
Ma questa indipendenza non è sempre possibile esercitarla, essendoci attorno a noi barriere culturali che ti riportano alla tua condizione di disabile costantemente, inesorabilmente. E così mi capita frequentemente di incontrare sulla mia strada persone con disabilità fisica che ignorano alcuni ausili che potrebbero incentivarne l’autonomia, o che non li utilizzano per paura, limitandosi nella loro libertà individuale.
Questo atteggiamento – molto  generalizzato e frutto, a mio avviso, di disinformazione e timore – porta i cosidetti “normodotati” a porsi in un’ottica assistenziale e di commiserazione verso le persone con disabilità, recependole come bisognose e non come pari e accomunando anche, in alcuni casi, chi ha un handicap fisico a chi ha un handicap mentale, senza fare perciò le dovute distinzioni.

Ed ecco quindi che chi – come me e molti altri – ha fatto della normalità il perno della propria vita, si ritrova dopo un regolare e proficuo percorso scolastico ad affrontare lavori che spesso sono rivolti esclusivamente a persone disabili, tramite “categorie protette” o attraverso cooperative sociali che a loro modo – pur essendo utili – ghettizzano la persona, relegandola esclusivamente nell'”ambiente della disabilità”.
La vera normalità, invece, consisterebbe nel potersi muovere, viaggiare, amare e avere relazioni amicali e lavorative con tutti, siano essi disabili o normodotati, senza dover parlare più di inclusione sociale, integrazione ecc., termini che ci fanno percepire come individui “diversi” e da considerare come tali.
In questo senso credo che una rivoluzione reale dovrebbe partire dagli stessi disabili, lottando per l’autonomia in ogni ambito, proponendosi per lavori non esclusivamente rivolti a loro, ma come persone competenti a prescindere dalla condizione fisica, che amano essere circondate da tutti e non solo dai propri “simili”.
Parafrasando una nota trasmissione, non mi sento “invincibile” né tanto meno una persona “speciale” (termine che detesto, in voga tra i non disabili, usato spesso per descriverci). Mi sento semplicemente una persona e come tale vivo.

Direbbe Renato Zero: «Svegliati, Fai sentire che esisti… Svegliati, dai respiro ai pensieri, sforzati, di cambiare anche tu. Prova un po’, a riscoprire le stelle… A sentirti dentro alla tua pelle». Ecco, facciamolo!

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